«Non prendo il verdetto come un attacco personale, ma come la vendetta di Erdogan contro un giornalista che ha pubblicato una storia sulle politiche criminali del governo turco». Can Dundar, giornalista turco in esilio a Berlino, commenta così la condanna in contumacia a 27 anni di carcere emessa dal 14° Tribunale penale di Istanbul: 8 anni e mezzo per aver aiutato un’organizzazione terroristica – «non saprei quale» - e 18 anni e 9 mesi per spionaggio politico – «non so per quale paese».

Secondo l’ex-caporedattore di Cumhuriyet, la sentenza contro di lui sarebbe «una decisione politica che non ha nulla a che fare con il potere giudiziario», perché «l’accusa non ha prodotto uno straccio di prova» e perché il giudice è noto all’opposizione per essere il «grilletto di Erdogan nel giudiziario». Motivo per cui, continua Dundar, «io e la mia difesa non siamo stati al gioco di questa cosiddetta Giustizia e ci siamo rifiutati di comparire in tribunale».

Giornalista per missione

Così alla lettura del verdetto c’erano solo l’intelligence turca e i legali vicini al presidente. Dundar aveva però un altro buon motivo per non presentarsi a processo: «Se fossi stato in Turchia sarei finito in prigione per il resto della mia vita». Una sorte che avrebbe condiviso con molti altri colleghi, stando alla classifica del World Press Freedom Index, per cui la Turchia è al 154° posto per libertà di espressione, e ai dati del Stockholm Center for Freedom (Scf), che contano 81 giornalisti condannati a pena detentiva, 93 in prigione in attesa di processo e 167 in esilio o clandestinità.  

C’è chi il giornalista lo fa per mestiere e chi lo prende come una missione. Can Dundar è senza dubbio parte della seconda categoria. Nato ad Ankara cinquantanove anni fa, figlio unico di una famiglia di burocrati, ha passato la sua infanzia nell’ufficio in cui lavorava la madre, il centro stampa della State Authority, dove è cresciuto a contatto con i più grandi giornalisti del tempo che lo hanno incoraggiato a seguire la loro strada.

«Ho sempre scritto, fin da bambino», racconta. La prima storia che ha scritto da giornalista è stata di persone morte sotto tortura: erano gli anni Ottanta, il periodo della dittatura militare in Turchia. «Era dura allora,ma mai quanto oggi. Ci sono più prigionieri politici adesso che 40 anni fa».

Lo scoop

Nel 2015 Dundar è caporedattore a Cumhuriyet, il principale quotidiano d’opposizione, e decide di pubblicare un video in cui si vedono gli agenti del Mit (l’intelligence turca) caricare un camion di armi destinato ai ribelli siriani anti-Assad. Quell’inchiesta di Cumhuriyet, per cui anche oggi Dundar è accusato di spionaggio, aveva portato a galla la prima prova del più grande segreto di pulcinella di allora. Cioé che Erdogan sostenesse i turcomanni e diversi gruppi islamisti dell’opposizione armata in Siria.

La divulgazione della notizia era così costata a Dundar tre mesi di carcere. La polizia era andata prenderlo a casa mentre stava uscendo a cena con la moglie per festeggiare il loro anniversario di matrimonio. Una volta in cella, Dundar era stato separato dagli altri prigionieri per evitare che “venissero contaminati” dalle sue idee. Aveva quindi passato gran parte del tempo a leggere Stefan Zweig e le poesie di Nazim Hikmet, che nelle ultime settimane di gattabuia lo avevano ispirato a scrivere qualche pagina del suo libro Arrestati.

Colpo di stato

Proprio quel libro, a sua insaputa, l’avrebbe salvato solo pochi mesi dopo. Era il 15 luglio 2016 e Dundar stava sudando sulle bozze in una camera d’hotel a Barcellona, dove si era ritirato quell’estate per riprendersi e finire la scrittura. D’un tratto dalla tv aveva sentito che in Turchia era in corso un colpo di Stato.

Dundar aveva intuito che non era aria di rientrare a casa: «Tornare in Turchia significava tornare in prigione», si diceva, viste le centinaia di arresti scattati nei giorni successivi. Si era dunque deciso a chiedere asilo politico in Germania, dove il canale Arte gli aveva già offerto un lavoro e l’associazione Pen si era offerta di aiutarlo: «In Germania c’è sempre grande interesse per la Turchia, per cui sono partito per Berlino. Ma ho capito che non sei mai al sicuro quando sfidi un leader come Erdogan, io continuo a scrivere e a parlare in favore di una Turchia democratica ma so di essere un bersaglio del Mit e del governo turco».

 (AP Photo/Markus Schreiber)

Una vita da zero

Neanche vita a Berlino è facile. Sua moglie l’ha raggiunto solo l’anno scorso illegalmente, dopo che le autorità turche le avevano confiscato il passaporto. «Finalmente siamo di nuovo una famiglia. Ma tutti i nostri beni sono stati confiscati e abbiamo ricominciato la nostra vita da zero».

Pochi mesi dopo l’arrivo in Germania, Can Dundar aveva fondato Özgürüz – Verità in turco – un media indipendente che riporta notizie introvabili sulla stampa turca. Per questo le minacce non sono mancate: «Un giorno ho visto dalla finestra la troupe di una TV turca che riprendeva la nostra redazione. Nel servizio davano gli orari, i dettagli degli spostamenti e l'indirizzo. Ci chiamavano terroristi e traditori».

Un esercito di Troll

Reporter Sans Frontières nel suo rapporto 2020 definisce la Turchia come la «più grande prigione per giornalisti al mondo» e sottolinea la forte leva economica che personaggi legati al governo usano per disporre di un controllo quasi completo dei mass media. Dopo il golpe del 2016 il partito di governo Akp ha predisposto la chiusura più di 200 siti di informazione e tramite la fondazione Tugva ha assoldato un esercito di troll, l’Ak trolls, che colpisce i giornalisti dissidenti – come riporta il Committee to Protect Journalist – ma anche governi e capi di Stato stranieri.

L’ultimo attacco cybernetico ha colpito il 23 dicembre il sito della Corte europea dei diritti dell’uomo, poco dopo la pubblicazione di un ordine in cui la Corte intimava il governo turco a rilasciare l’ex leader del partito curdo Hdp, Selahattin Demirtaş, in carcere dal novembre 2016. 

(AP Photo/Markus Schreiber, file)

Il rischio dell’arresto in Italia

«In Europa i sostenitori di Erdogan sorvegliano gli oppositori, cosa dicono o fanno contro il governo, e riferiscono all’intelligence che li punisce» dice Dundar. «Questo però non mi impedisce di scrivere o parlare, anche se fanno molte pressioni sul governo tedesco perché consegni i dissidenti alla Turchia».  

È la longa manus di Erdogan sull’Europa, così la chiama Dundar, ed è una mano che ha cercato di acciuffarlo più volte senza mai riuscirci. Una volta ci ha provato anche in Italia. Era l’ottobre 2017 e Can Dundar era ospite al festival di Internazionale a Ferrara per ritirare il premio giornalistico Anna Politkovskaja. Il suo avvocato lo aveva chiamato per avvisarlo che doveva fare le valigie di corsa e andarsene perché non era più al sicuro: una corte di Diyarbakir aveva emesso un mandato di cattura internazionale nei suoi confronti e l’Interpol gli stava alle calcagna.

L’avvocato non era certo che l’Italia gli avrebbe datola stessa protezione della Germania. A fine chiamata Dundar aveva commentato ridendo: «Fare il giornalista è come essere tra inferno e paradiso». Mentre gli dicevano che era ricercato come un “terrorista” internazionale, aveva saputo che era stato nominato al Nobel per la pace.

Essere terrorista

La definizione di “terrorista” data dal governo turco è piuttosto lasca, ricorda Dundar: «Basta essere oppositori», o anche intervistare membri di gruppo tacciati di terrorismo come Fetö, il movimento del predicatore e politologo Fethullah Gülen, e il Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan. L’accusa di terrorismo contro Dundar è invece stata respinta con forza dal ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas, che ha pubblicamente reiterato il suo appoggio Dundar con un commento molto chiaro: «Il giornalismo non è un crimine».

«È un dovere difendere la verità e continuare a raccontare cosa succede nel mio paese visto che i miei colleghi in Turchia faticano a raccontarla», ribadisce Can Dundar. E in Turchia di cose ne succedono: «Il coronavirus si sta espandendo ma in un paese in cui non ci sono media liberi è difficile avere i dati reali del contagio. Erdogan è alle strette, sta perdendo potere economico e politico. Tutti gli opinion polls lo danno a meno del 30 per cento per la prima volta in 20 anni».

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La crisi economica

Con la conquista di Istanbul alle amministrative del 2019 l’opposizione si è allineata in un fronte unico e preme sul governo. Dal canto suo l’Akp al potere è spaccato sulla crisi economica, tanto che a novembre Erdogan su pressioni di partito ha costretto il suo genero e erede politico Berat Albayrak alle dimissioni da ministro delle Finanze.

«Per riconquistare il potere Erdogan ha stretto la morsa sull’opposizione e ha puntato sull’interventismo estero, creando crisi internazionali», commenta Dundar. Ma stando ai dati, l’interventismo del presidente turco, se sul breve periodo è fonte di successi diplomatici (Libia, Siria, Nagorno-Karabakh, la teoria della “Patria Blu” e l’espansione imperiale nel Mediterraneo orientale), sul lungo periodo la strategia si rivela un cane che si morde la coda: a ogni intervento la lira turca crolla a picco, con un’inflazione che in chiusura 2020 è salita al 12 per cento e un Pil che è a meno 25 per cento. La crisi economica si aggrava.

Un’altra Turchia

«La Turchia non è Erdogan, e Erdogan non è il padrone del paese, ha solo un terzo dei consensi e purtroppo con quel 30 per cento controlla tutto», sintetizza Dundar. «Il mio lavoro è spiegare al pubblico con che tipo di governo abbiamo a che fare e cercare di difendere le forze democratiche in Turchia».

Molti leader europei quando visitano la Turchia incontrano Erdogan e non incontrano l’opposizione, le organizzazioni della società civile, o i sindacati, dice Dundar: «Esiste un’altra Turchia e va incontrata». 

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