Pubblichiamo la seconda puntata dell’inchiesta di Luca Attanasio finanziata dai nostri lettori. Qui la prima puntata, qui e qui altri due progetti scelti. 

Il primo rischio da schivare, per loro, è la morte. Per l’Unicef sono almeno 40mila, per le Ong che lavorano sul campo sono di più. I bambini del cobalto formano un esercito, piccoli schiavi congolesi impiegati, si fa per dire, in una delle "peggiori forme di lavoro minorile", secondo la definizione della Worst forms of child labour convention stilata dall’Organizzazione internazionale del lavoro. Vanno a ingrossare le fila dei circa tre milioni e mezzo di loro coetanei che spingono la Repubblica Democratica del Congo all’ottavo posto della triste classifica mondiale dei maggiori utilizzatori di lavoro minorile. Per loro, però, non si tratta solo di abbandonare studi e divertimenti anche a cinque o sei anni. Devono trascorrere intere giornate a infilarsi nei cunicoli minerari scavati dai loro padri nella provincia del Lualaba, ex Katanga, per portare in superficie, a mani nude e senza alcuna protezione, quanto più cobalto possibile. I più piccoli, sei o sette anni, restano in superficie, lavano, caricano e scaricano sacchi pesantissimi.

Rischi e abusi

Tantissimi contraggono malattie respiratorie gravi o riportano danni legati allo sviluppo corporeo e cerebrale, subiscono abusi di ogni tipo. Molti restano intrappolati nei tunnel a causa di cedimenti del terreno e terminano sepolti vivi la loro breve esistenza. Entrano la mattina sperando di uscire la sera, una macabra danza propiziatoria sulle note del mercato globale, che porta nelle casse delle grandi multinazionali della filiera del cobalto fatturati sempre maggiori e ai minatori bambini due o tre dollari al giorno.

I child miners del Lualaba sono le prime e più fragili vittime della cobalt rush, una corsa sfrenata al metallo fino a qualche anno fa negletto che, da quando la richiesta di auto elettriche nel mondo si è impennata, è schizzato ai primi posti del London metal exchange. Il Congo, o più precisamente una provincia del grande paese africano, quella del Lualaba appunto, fornisce al mondo tra il 60 e il 70 per cento di questo materiale indispensabile per le batterie delle auto elettriche e dei nostri smartphone, e si è trovato improvvisamente a gestire una caccia deregolata che ha svegliato gli appetiti di multinazionali e aumentato spaventosamente il livello di sfruttamento di uomini e ambiente. È la solita, odiosa storia della fortuna di ritrovarsi sotto casa una ricchezza inaspettata che, in alcune aree del pianeta, finisce sempre per trasformarsi in maledizione delle risorse. «La cosiddetta Quarta rivoluzione industriale», spiega Cristina Duranti, direttrice della Good Shepherd international foundation, una Ong che dal 2013 si occupa di progetti nella provincia del Lualaba, «non può fare a meno del cobalto. Ma l’estrazione di questo minerale si basa su un sistema di sfruttamento delle risorse minerarie che va in direzione opposta alla sostenibilità ed è ampiamente irresponsabile». La “maledizione delle risorse” nel Lualaba ha gravemente impoverito l’ecosistema e il tessuto sociale. Ha creato un indotto forzato che ha portato al sostanziale abbandono del settore agricolo e favorito disequilibri in ogni campo. «E chi paga il prezzo più alto di questo mix letale di interessi economici internazionali e gestione deregolata della filiera?», si chiede Duranti. «Ovviamente i membri più fragili delle comunità locali: i bambini che lavorano in miniera in sette casi su 10, le ragazze e le donne, con gli abusi che sfiorano il 100 per cento. Sembrano essere tutti precipitati nel secolo pre–industriale».

Prede facili

A Kolwezi, il capoluogo della provincia divenuta nel giro di 7 anni l’epicentro della cosiddetta cobalt belt, i bambini, prima o poi, nei tunnel ci finiscono tutti. I primi della lista sono quelli in situazioni di estrema fragilità: bambini rimasti orfani, spesso perché i padri sono morti nelle miniere e le madri hanno contratto gravi malattie, che vanno a vivere dalla nonna e devono pensare al sostentamento della casa o, peggio, minori che non hanno neanche un parente a cui rivolgersi e vagano senza una fissa dimora. A tènere età cominciano a frequentare le cave e chiedere di venire impiegati per fare fronte alle fame. Frane e crollo dei cunicoli sono all’ordine del giorno. I ragazzini che si infilano facilmente fino a grandi profondità grazie alla loro agilità, sono gli ultimi a provare a uscire in caso di smottamenti. Oltre che a eventi estremi, però, il bambino-minatore è esposto quotidianamente a una serie di problemi che caratterizzano il contesto infernale delle cave di cobalto. Le bambine, per esempio, raramente scendono nei tunnel ma orbitano ugualmente ai margini delle cave occupandosi di lavare le pepite di cobalto. «Se ne vedono tante», racconta un minatore, «che vengono prese dagli uomini e portate nei locali vicino alle cave per rapporti sessuali. Ricevono pochi soldi e subiscono abusi di continuo. È un circolo vizioso, i ragazzi aumentano le ore di lavoro per guadagnare più soldi e poter pagare le ragazze che lavorano nelle miniere e avere rapporti con loro». Pesa il progressivo allontanamento dal sistema scolastico: solo di recente il governo congolese ha reso gratuito per 2,5 milioni di bambini l’accesso all’istruzione primaria, ma le decine di milioni restanti hanno generalmente grossi problemi a pagare l’iscrizione. Ma soprattutto pesano sui minatori bambini i problemi di salute. Secondo una ricerca condotta dal dipartimento di Salute Pubblica dell'Università di Lovanio insieme all'ateneo congolese di Lubumbashi, i bambini che lavorano nell’estrazione di cobalto sono particolarmente vulnerabili. Con i test effettuati sul sangue e le urine, si è rilevata un’alta concentrazione di cobalto e altri metalli. Secondo Benoit Nemery, pneumologo che ha guidato lo studio, i dati raccolti destano allarme: «I bambini che vivono nel distretto hanno una concentrazione di cobalto dieci volte superiore a quella dei bambini di altre aree. I loro valori sono molto più alti di quelli che noi accettiamo per i lavoratori adulti in Europa. Come se non bastasse, abbiamo scoperto danni nel dna di quei bambini maggiori rispetto ad altri». Racconta Tshikuta, un ragazzo ora diciassettenne: «prima le giornate le passavo scavando con mezzi rudimentali fino a 7 metri sotto terra nei tunnel di una miniera artigianale di cobalto vicino a Kolwezi. La vita era terribile. Avevo dolori al petto, altre volte arrivavo a tossire sangue ma dovevo continuare a portare in superficie i sacchi di minerale che erano a volte più pesanti di me. Guadagnavo quasi tre mila franchi congolesi al giorno (due euro, ndr) che mi servivano per comprare da mangiare».

Anche i gravissimi danni ambientali provocati dalle miniere hanno immediate conseguenze sugli abitanti della zona e sui bambini. Una ricerca condotta dalle università di Lubumbashi, Lovanio e Gand e pubblicata dalla rivista Lancet lo scorso maggio ha dimostrato che tra i membri della comunità locale, in gran parte impiegati nelle miniere, è altissimo il rischio di generare bambini con gravi patologie, tra le quali spina bifida, anomalie renali o palatoschisi. Lo studio ha messo l’alta incidenza in diretta correlazione con l’inquinamento provocato dall’estrazione di cobalto nel sud Katanga, definito una delle aree «più inquinate al mondo».

Il prezzo della green economy

I bambini minatori del Lualaba, ancora più degli oltre 150mila adulti che afferiscono, come loro, all’indotto del cobalto, sono le innocenti vittime di uno dei paradossi più inquietanti della green revolution. Sono sfruttati come schiavi al fine di garantire la fabbricazione delle batterie per le auto elettriche concepite e realizzate per rendere il mondo più pulito, vivibile, giusto.

Anneke Van Woudenberg, direttore di Raid (Rights and accountability in development, cioè "Diritti e responsabilità nello sviluppo") è molto diretta: «Senza Congo non c’è mercato delle auto elettriche né rivoluzione verde». Ma senza diritti, senza salute, senza scuola e senza gioco non c'è futuro per i bambini del Katanga. Qualcosa negli ultimi anni sta cambiando. Grazie ai due report di Amnesty International del 2016 e 2017 e ad articoli, studi e azioni di Ong, il fenomeno è emerso e le aziende della filiera, dall’estrazione alla vendita di auto elettriche o smartphone, passando per raffinazione e snodi commerciali intermedi, sono state inchiodate alle loro pesanti responsabilità e hanno dovuto cominciare a fare i conti con violazione dei diritti e la salvaguardia dell’infanzia. Alcune hanno reagito positivamente, iniziando a cambiare i propri comportamenti e, in alcuni casi più virtuosi, incrementando le azioni di responsabilità sociale. Altre faticano a riconoscere l’enorme ricaduta negativa dei loro profitti, in crescita costante, sulla popolazione e sui bambini in particolare. Nessuno si sogna qui di criminalizzare in toto l’industria dell’estrazione in Congo che, peraltro, è un’enorme fonte di Pil e lavoro, né la diffusione capillare dei veicoli elettrici nel mondo che tutti auspichiamo. Al contrario, l'obiettivo è di far uscire al più presto i bambini dai tunnel e viene perseguito facendo emergere con ogni mezzo lo scandalo di una filiera che porta energia pulita al mondo e che è sporca nella sua origine, e denunciando un sistema che contribuisce pesantemente, e nel modo peggiore, ad aumentare il numero di bambini dai 5 ai 17 anni costretti a lavorare nel mondo: 152 milioni. Il futuro che si profila è quello di un’alleanza, favorita anche dall'informazione, tra ricercatori, comunità locali, Ong e consumatori per garantire maggiore giustizia. Esattamente quello che fanno realtà impegnate da anni sul campo, come spiega ancora Duranti: «Bon Pasteur Kolwezi è l’Ong locale, nostra affiliazione, che dal 2013 ha avviato un programma di sviluppo comunitario che comprende progetti di inserimento scolastico e protezione dei diritti, per affrontare da una parte le cause dello sfruttamento minorile, e dall’altra creare opportunità economiche alternative all’estrazione del cobalto. In sette anni ha portato quasi tremila bambini come Tshikuta fuori dalle miniere e li ha inseriti in percorsi scolastici, e ha sostenuto dieci cooperative agricole che forniscono lavoro e sicurezza alimentare a oltre 800 famiglie».

© Riproduzione riservata