Ambizioso sulla carta, debole finanziariamente, quasi disarmato giuridicamente. È questo il bilancio dell'accordo uscito dalla COP15 di Montreal, in Canada, il negoziato multilaterale dell'Onu per la protezione della biodiversità.

Secondo un nuovo studio pubblicato su Science Advances e pubblicato all'inizio del vertice un decimo degli animali e delle piante che oggi esistono nel mondo potrebbero estinguersi entro la fine del secolo per mano umana, se continuiamo con i trend attuali di alterazione di clima ed ecosistemi. È questa la scala del problema sul quale si è provato a intervenire nella conferenza delle parti guidata diplomaticamente dalla Cina e ospitata dal Canada.

Il più simbolico e politico degli obiettivi è stato raggiunto: più di 190 paesi si sono impegnati per portare al 30 per cento entro il 2030 le aree protette sulla terraferma (dove oggi sono il 17 per cento) e gli oceani (dove sono l'8). Sarebbe il più massiccio intervento di protezione della natura mai realizzato. Il punto sono le condizioni e le risorse per realizzarlo, soprattutto quelle messe a disposizione dei paesi allo stesso tempo più poveri finanziariamente e più ricchi di biodiversità da proteggere.

Il prezzo del crollo

Secondo uno studio del Paulson Institute, per invertire il crollo della biodiversità servirebbero globalmente 700 miliardi di dollari all'anno. L'accordo di COP15, il Kunming-Montreal Global Biodiversity Framework, prevede che meno della metà del necessario, 200 miliardi di dollari, vengano mobilitati.

Per metterli insieme si punta in maniera preponderante sulla filantropia e sulla grande finanza privata, che in questi anni si è dimostrata disattenta alla natura ancora più che al clima.

I paesi in via di sviluppo, in particolare quelli africani, chiedevano che almeno 100 miliardi, cioè la metà, venissero da fondi pubblici dei paesi industrializzati. Ne hanno ottenuti solo 20 e solo a partire dal 2025 e non in un fondo separato da quelli esistenti.

È stato uno dei passaggi più contestati di tutto il vertice, i rappresentanti di Repubblica Democratica del Congo, Uganda e Camerun hanno provato a bloccare il testo finale, che si poteva approvare solo all'unanimità, mentre la presidenza cinese, il ministro dell'ecologia e dell'ambiente Huang Runqiu, ha applicato metodi da comitato centrale per zittirli e portare l'accordo in porto, una procedura al limite dell'illegalità per un contesto attento al cerimoniale come le COP.

Nessun obbligo

I paesi firmatari non sono obbligati a fare niente di quello che si sono impegnati a fare. Il precedente accordo globale sulla biodiversità, gli obiettivi di Aichi del 2010, è stato uno dei più grandi fallimenti nell'azione globale per l'ambiente.

Per non ripetere quel fiasco il nuovo accordo prevede target e obiettivi molto più precisi, con degli schemi di misurazione ai quali attenersi, ma non ci saranno meccanismi di sanzioni di alcun tipo. Funziona prevalentemente così anche per il clima, in quel caso la differenza è l'attenzione ormai massiccia dell'opinione pubblica, che genera un incentivo politico a non ignorare gli impegni presi.

Il livello di attenzione alla crisi della biodiversità e ai suoi rischi è molto più indietro, e questo indebolisce tutta l’architettura. Un segnale della distrazione globale alla natura è come viene valutata l'assenza degli Stati Uniti dalla convenzione sulla biodiversità, unico paese Onu a non esserci, e quindi anche dall'accordo di Montreal appena firmato.

Sul clima il vuoto statunitense degli anni di Trump era un caso politico, mentre quello dal sistema globale di protezione della natura è ormai accettato come una cosa inevitabile. Un'altra spia, più piccola ma per noi più significativa, è l'assenza del governo italiano dai negoziati. Non si sono fatti vedere a Montreal né il ministro dell'ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin né quello dell'agricoltura e della sovranità alimentare Francesco Lollobrigida. A COP15 siamo stati l'unico paese di tutta l'Unione Europea a non inviare nessuna figura di rango ministeriale. Per il nostro governo c'era solo la sottosegretaria Vannia Gava.

Strumento e fine

Allargando lo sguardo, la sensazione è che per raggiungere il grande numero da offrire al mondo come un successo, il 30x30, si siano persi molti dettagli chiave, confondendo uno strumento (le aree protette) con il vero fine (fermare la perdita di biodiversità).

La COP15 ha fatto un passo avanti sui diritti delle popolazioni indigene da tutelare nel processo di creazione delle aree protette, si è però mostrata più debole quando si trattava di invertire i veri fattori di perdita di specie: consumo umano e produzione di cibo, sui quali sono stati presi impegni generici e non verificabili, dalla riduzione dei fertilizzanti di sintesi a quella dei sussidi pubblici alle attività che distruggono la natura, tutti ambiti che i governi nazionali non sono ancora in grado di affrontare. 

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