Dall’inizio della presidenza di Joe Biden i democratici americani strategicamente più accorti hanno sempre detto che il giudice della Corte suprema Stephen Breyer – uno dei tre membri della minoranza liberal –  si sarebbe ritirato soltanto quando i democratici americani stratgicamente meno accorti avrebbero smesso di chiederglielo. Così è andata. 

La Nbc per prima ha dato la notizia, appresa attraverso una fonte vicina al giudice, che l’83enne Breyer andrà in pensione alla conclusione dell’anno giudiziario, all’inizio di ottobre. La portavoce della Casa Bianca ha prontamente twittato una dichiarazione per rimarcare la totale indipendenza dei giudici rispetto al potere esecutivo: «La decisione sul se e quando andare in pensione, e sul modo di darne l’annuncio, è sempre stata soltanto dei giudici, e questo rimane vero anche oggi», ha scritto, ma tra le righe non è difficile leggere la soddisfazione per la notizia trapelata.

Decisione strategica

La decisione di Breyer arriva dopo mesi in cui le pressioni dei progressisti per il suo ritiro sono diminuite di intensità. Lo scorso autunno le correnti più a sinistra del Partito democratico chiedevano a gran voce che l’anziano giudice si facesse da parte per permettere a Biden di fare subito una nuova nomina di osservanza liberal e l’associazione Demand Justice aveva anche sponsorizzato la presenza fissa di fronte al palazzo della corte di un cartellone pubblicitario montato su un furgone che diceva: “Breyer, ritirati. È tempo di una donna nera alla Corte suprema”, un riferimento alla promessa di Biden di nominare una donna afroamericana.

Il presidente ha abbassato la temperatura sul dibattito, ha nominato un’ampia, autorevole e programmaticamente inconcludente commissione di esperti di tutti gli orientamenti per valutare la possibilità di aumentare il numero dei giudici (sono nove per tradizione, non per dettato costituzionale) e il documento emerso dai lavori certifica la preferenza della Casa Bianca per lasciare le cose come stanno, posizione peraltro condivisa anche da Breyer.

La strategia era dare l’impressione di lavorare alacremente a tutte le opzioni possibili sul fronte strutturale e intanto di lasciare in pace un giudice che ha sempre ripetuto che non sarebbe arrivato alla fine dei suoi giorni ancora in carica e che tutto avrebbe voluto tranne piegare la tempistica del suo ritiro alle esigenze della politica. Non chiedete e vi sarà dato, insomma.

La grande battaglia

La scelta di Breyer è politicamente decisiva. Il suo pensionamento permette finalmente all’amministrazione democratica di nominare un giudice di osservanza liberal dopo la grande infornata di Donald Trump, che in quattro anni ne ha nominati tre.

Due hanno sostituito precedenti giudici conservatori, ma la terza nomina ha portato la superconservatrice Amy Coney Barrett a rimpiazzare la leggenda della sinistra Ruth Bader Ginsburg, accrescendo la maggioranza conservatrice, e c’è ancora a sinistra chi non perdona a RBG di essersi ostinata a rimanere in carica fino alla fine invece di ritirarsi durante la presidenza di Barack Obama. 

La grande battaglia politica della Corte di questi anni è poi resa ancora più lacerante dal “furto” di un giudice da parte dei repubblicani, che sul finire del secondo mandato di Obama hanno usato la maggioranza al Senato per impedire la conferma del nome individuato dal presidente democratico, Merrick Garland, per rimpiazzare il conservatore Antonin Scalia, che era morto nel frattempo. 

Con una forzatura ostruzionistica sono riusciti a rimandare la nomina, che poi è finita nelle mani di Trump. Per chiarire che la manovra non è mai stata perdonata, Biden ha poi nominato Garland procuratore generale, e lui ha inevitabilmente interpretato il ruolo nel modo più aggressivo e battagliero possibile, usando tutti gli strumenti a sua disposizione per contrastare decisioni prese dai giudici conservatori a tutti i livelli. 

La scelta di Biden non cambierà gli equilibri della Corte, che sarà comunque dominata dai conservatori, ma permette ai democratici di incassare una nomina che verosimilmente durerà nel tempo da affiancare a Elena Kagan (61 anni) e Sonia Sotomayor (67 anni), entrambe nominate da Obama. Se poi il presidente manterrà la promessa di scegliere una donna afroamericana avrà stabilito un altro primato simbolico utile per un presidente in profonda crisi di consensi.

Il tempismo

Il tempismo della decisione di Breyer è importante. I giudici della Corte devono essere confermati con il voto della maggioranza del Senato e alle elezioni di midterm di novembre i democratici rischiano di perdere la tenue, quasi impercettibile maggioranza che hanno ora (50-50, con il voto della vicepresidente Kamala Harris che fa pendere il contro verso sinistra).

Se Breyer fosse rimasto in carica fino all’inizio del 2023 avrebbe rischiato di lasciare l’amministrazione “amica” in una situazione simile a quella che ha fatto naufragare la nomina di Garland, cosa che lo avrebbe proiettato nella storia come il sommo traditore della causa liberal. Così, invece, offre ai democratici un valido aiuto senza dare (troppo) l’impressione di essersi ritirato su richiesta del partito.

Tuttavia, nessuno a sinistra si fa illusioni: nel primo anno di Biden il partito è stato ostaggio di due senatori democratici di fede centrista che non ne vogliono sapere di allinearsi con la Casa Bianca su faccende dirimenti come la riforma del welfare e il piano ambientale. In questo clima è chiaro che anche la nomina del successore di Breyer sarà una battaglia.

Questioni di sostanza

Poi c’è la sostanza. La Corte suprema si esprime sulla costituzionalità delle leggi, ma nel farlo prende decisioni su aspetti fondamentali della vita del paese, dai diritti individuali alle questioni etiche e sociali più dibattute.

Al momento al vaglio della Corte c’è un caso che potrebbe ribaltare, per intero o parzialmente, la sentenza Roe v. Wade che nel 1973 ha legalizzato l’aborto, e un altro che potrebbe cambiare radicalmente i criteri di diversità etnica con cui le università selezionano gli studenti.

I nove giudici si sono espressi sui diritti delle persone transgender, sulla libertà religiosa, sulle leggi che tutelano il diritto di voto e sugli obblighi vaccinali, tanto per rimanere agli esempi più recenti. In passato la Corte ha legalizzato il matrimonio gay a livello federale e ha eliminato i limiti ai finanziamenti dei privati alla politica, sulla base della difesa del diritto di parola garantito dal Primo emendamento.

L’orientamento dei giudici può decidere la direzione che prende il paese: il numero di giudici che un presidente si trova a poter nominare è una delle questioni fondamentali per un’amministrazione, che proietta indirettamente la sua azione molto oltre i limiti del mandato.

Chi verrà dopo?

Nei suoi 28 anni alla Corte suprema, Breyer è stato l’autore di sentenze importanti per la tutela del diritto all’aborto e per la separazione dei poteri; la sua azione è stata anche decisiva nel respingere i ricorsi presentati contro l’Obamacare, che dopo un percorso legale tortuoso è arrivata a una solidissima conferma costituzionale. 

«Mi assicurerò checi possa essere una donna nera alla Corte suprema per far sì che tutti siano rappresentati», ha detto Biden poche settimane dopo il suo insediamento. Il presidente ha in mano una lista di nomi che è ampiamente circolata a Washington nei mesi scorsi.

In cima c’è la 51enne Ketanji Brown Jackson, che il presidente ha promosso lo scorso anno alla Corte d’appello del District of Columbia, e ha anche il non trascurabile vantaggio di essere stata clerk di Breyer. Tra le candidate ci sono anche la giudice della Corte suprema della California Leonda Kruger (45 anni, sarebbe la più giovane di sempre) e la giudice federale della South Carolina Michelle Childs.

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