Non una telefonata, o un tweet. Per il governo di Jair Bolsonaro la vittoria di Joe Biden ancora non esiste, come per Kim Jong-Un e qualche altro leader mondiale. Uno sgarbo del tutto inutile ma già un passo in avanti, come è stato scritto ironicamente in Brasile: quando vinse il peronista Alberto Fernández in Argentina, Bolsonaro commentò che i vicini “avevano scelto male”, perché il vincitore era “un amico di Lula”.

Meglio il silenzio, dunque, perchè si può sempre rimediare. Arriverà il momento, assicurano a Brasilia. Se l'estremismo del governo brasiliano, allineato al trumpismo in forma totale, aveva già fatto saltare tutti gli schemi della tradizionale politica estera brasiliana, multilaterale al limite della neutralità, il ritorno dei democratici alla Casa Bianca può peggiorare la posizione di colui (Bolsonaro) che la sinistra latinoamericana ha già definito con fin troppa speranza “il prossimo della lista”.

Perché non si sa se e quando ne verrà travolto, ma di una cosa il presidente brasiliano ha terrore, e con Biden l'incubo può materializzarsi: la questione amazzonica, e l'aumento della pressione internazionale sulla distruzione della grande foresta.

Quanto devono pagare gli Stati Uniti?

Nel famoso dibattito tv Trump-Biden, quello inascoltabile per le interruzioni, una delle espressioni più sprezzanti del presidente in carica fu quella che accolse le parole del democratico sulla necessità di una nuova iniziativa mondiale sull'Amazzonia.

Secondo Biden si dovrebbero stanziare 20 miliardi di dollari da offrire al Brasile per fermare la deforestazione, e soprattutto avvertire il paese sudamericano che soffrirebbe “conseguenze economiche significative” nel caso la distruzione dovesse continuare.

L'allineamento Trump-Bolsonaro sul negazionismo climatico e ambientale negli ultimi anni è stato totale.

Prima delle elezioni  per la Casa Bianca il Brasile aveva annunciato di voler uscire dall'accordo di Parigi sul clima seguendo gli Stati Uniti, che l'hanno abbandonato già nel 2017. Affinità ideologica ma anche convenienza, perché il governo Bolsonaro non sta rispettando gli impegni presi in precedenza dal Brasile sulle emissioni.

La stagione secca appena terminata è stata un'altra ecatombe per i fragili sistemi dell'Amazzonia e del Pantanal, con un aumento degli incendi per il secondo anno consecutivo.

Non esistono ancora dati consolidati, ma è probabile che il Brasile sia l'unico Paese del mondo ad aver aumentato le emissioni di gas serra durante la pandemia, perché i fumi degli incendi hanno superato e di parecchio gli effetti del rallentamento dell'economia.

In questi anni, inoltre, l'amministrazione americana non ha detto una sola parola sulla valanga di omissioni, mosse suicide e parole deliranti proferite da Bolsonaro sulla questione amazzonica. Dal negazionismo sui dati pur ufficiali del proprio governo sulla riduzione della foresta (Bolsonaro è arrivato a licenziare il responsabile), alle accuse a vanvera agli indios e alle Ong straniere. Memorabile fu l'attacco a Leonardo Di Caprio, accusato addirittura di finanziare gli incendi criminali.

L’impatto sull’ambiente

Nei fatti, il governo di Brasilia ha allentato i controlli sulle illegalità in maniera programmatica. Riducendo la spesa per la polizia ambientale, tagliando le multe ai trasgressori e annullando alcune delle azioni che nei vent'anni precedenti avevano contribuito ad una significativa riduzione della deforestazione.

Una su tutte, i sequestri e la distruzione dei trattori e di tutte le macchine usate per entrare nella foresta vergine. Alla guida del ministero dell'Ambiente, Bolsonaro ha posto il negazionista Ricardo Sales, il quale ha già tentato di cambiare alcune leggi di preservazione, e per fortuna è stato stoppato dalla Corte suprema.

Sales, e il  ministro degli Esteri Ernesto Araujo – uno che considera la globalizzazione la lunga mano del marxismo planetario – formano la coppia estremista e ideologica, la cui eventuale permanenza nel governo sancirebbe nei prossimi anni la conferma di un isolazionismo suicida, senza alcun senso per un Brasile orfano di Trump.

L’Amazzonia è nostra

“L'Amazzonia è nostra”, è un lemma che risale agli anni Sessanta, cavallo di battaglia dei governi militari, che ne iniziarono la sua distruzione aprendo strade e massacrando gli indios.

Anche buona parte della sinistra brasiliana vi ha flirtato negli anni, spostando il concetto dal nazionalismo alla lotta all'imperialismo, soprattutto in funziona antiamericana. Le fake news sui piani per togliere l'Amazzonia al Brasile circolano, su carta, da quando i social erano ancora un'ipotesi da fantascienza.

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Quando Bolsonaro dice che il mondo intero, da Emmannuel Macron agli attivisti con l'amaca avvolto nello zaino, ha come unico obiettivo impossessarsi delle “nostre” ricchezze della foresta usa un argomento facile e consolidato, ma ormai usurato.

La politica ambientale è uno dei punti deboli della sua popolarità interna: la grande maggioranza dei brasiliani non è d'accordo. Le immagini tv sugli animali bruciati colpiscono duro. Non è detto dunque che approssimandosi l'ora della rielezione (2022), Bolsonaro non mitighi la sua linea estremista.

Al momento - e lo sgarbo di non congratularsi con Biden è un segnale chiaro - Bolsonaro va avanti per la sua strada. Quando il candidato democratico parlò in tv dei 20 miliardi di dollari per l'Amazzonia, il leader brasiliano definì le sue parole “disastrose e gratuite”. La nostra sovranità non è negoziabile, aggiunse Bolsonaro, e molti non capiscono che il Brasile è cambiato: a differenza dei presidenti di sinistra del passato non accettiamo mazzette, né minacce codarde contro la nostra integrità economia e territoriale.

Il Green New Deal

Il problema è che la linea ostile «non abbiamo bisogno dei vostri soldi» potrebbe avere i giorni contati, proprio per le caratteristiche dei progetti di Biden. Finora i fondi dall'estero per l'Amazzonia si sono basati soprattutto sul principio di preservazione totale. Così funzionava l'Amazon Fund, finanziato da Germania e Norvegia, e ora congelato per protesta contro le politiche di Bolsonaro.

Le idee di Biden si basano invece sulla filosofia del Green New Deal, cioè usare il denaro per progetti sostenibili, far girare l'economia verde creando posti di lavoro. Non che il concetto sia totalmente nuovo. In Amazzonia molti interventi, soprattutto finanziati dalle ong internazionali, lavorano da tempo sull'utilizzo della foresta “in piedi”, soprattutto nel settore agricolo-estrattivo. Ma è ovvio che uno stanziamento come quello citato da Biden, e cioè venti volte superiore a quello dell'attuale Amazon Fund, non può certo basarsi soltanto sulla raccolta dell'açai o dei chicchi di caffé politicamente corretti.

Come direbbe Bolsonaro, l'Amazzonia è anche un posto per fare soldi veri. Soltanto nel settore dell'energia, le miniere e le infrastrutture, gli interessi che vi girano possono anche essere giganteschi. Secondo un report recente della ong Amazon Watch, “Complicity in Destruction”, sei colossi della finanza internazionale, da Blackrock a Bank of America, hanno già adesso 18 miliardi di dollari investiti in società che agiscono in Amazzonia. Il report è accusatorio, e mette in luce gli effetti devastanti. Ma rende l'idea di quanto un New Deal ambientale possa eventualmente convenire, anche con le migliori intenzioni.

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