Adesso che Donald Trump si prepara a diventare storia passata, in molti stanno tracciando i primi bilanci della sua presidenza. Gran parte di questi commenti sono ostili e superficiali: il presidente viene insultato per il suo razzismo, la sua xenofobia, l’inefficienza, l’ignoranza, l’insensibilità. Molti di quelli che lo difendono si concentrano sugli stessi aspetti ma per loro razzismo, xenofobia e arroganza sono da considerare virtù e non deprecabili difetti.

Il mio bilancio è diverso: Trump aveva ragione e ci ha insegnato a imparare come funziona davvero il potere negli Stati Uniti.

Il bilancio di America First

Trump non sbagliava nel principio fondante della sua politica estera: America first e un moderato isolazionismo. Ci sono soltanto due politiche estere possibili per gli Stati Uniti: America First oppure quella dell’eccezionalismo americano, cioè l’ideologia in base alla quale la supremazia americana deriva dalle qualità uniche dalla nostra repubblica.

La supremazia degli Stati Uniti implica chiaramente un sistema internazionale gerarchico nel quale gli Stati Uniti sono al vertice e altri paesi si collocano in posizioni inferiori e sussidiarie. L’obiettivo ultimo e non dichiarato di questo approccio è il dominio del mondo.

Gli Stati Uniti non sono certo il primo paese ad aver coltivato sogni simili: dall’Egitto a Roma, all’impero bizantino, a quello musulmano a Carlo Magno, agli Unni, a Tamerlano, a Napoleone, a Hitler, all’impero comunista dell’Urss… la lista è lunga.

Mentre le probabilità di raggiungere questo obiettivo di supremazia sono molto basse, quello che è certo è che la strada è lastricata di guerra. L’ideologia della “nazione indispensabile” determina, per definizione, “guerre infinite per una pace infinita”, per usare le parole dello scrittore Gore Vidal. Non è certo per caso che l’America è stata quasi ininterrottamente in guerra negli ultimi ottant’anni.

L’approccio America first mette, almeno formalmente, tutti i paesi sullo stesso livello e rivendica che l’America perseguirà il proprio interesse, e si aspetta lo stesso comportamento da parte degli altri stati.

Ora, Trump non è certo uno studioso di relazioni internazionali, eppure nel suo discorso alle Nazioni unite ha chiarito di aspettarsi anche da paesi come Algeria o Zimbabwe lo stesso approccio che lui ha impresso agli Stati Uniti.

Nella politica America First, gli Stati Uniti finiranno sempre per picchiare più duro degli altri, in virtù della loro dimensione, ma non coltivano alcun desiderio o illusione di governare altri paesi o, peggio ancora, spiegare loro come gestire i propri affari interni. E’ un tipo di politica pragmatica che rende la guerra molto meno probabile: sugli interessi si può negoziare, sulle ideologie è impossibile.

Trump ha seguito, più o meno, questa linea finché la sua ossessione per la Cina non si è saldata con la pandemia da Covid-19 che lui sembra aver sempre considerato come un qualche genere di complotto cinese per estrometterlo dalla presidenza. Eppure, non ha cominciato nuove guerre e ha fatto anche alcune mosse significative per porre fine a guerre che gli Stati Uniti combattono da un ventennio per le quali a Washington nessuno riesce più a trovare una giustificazione razionale. Erano guerre imperiali, del genere da Deserto dei tartari, nelle quali il vertice dell’impero presto dimentica dove i suoi soldati stanno combattendo e perché.

L’azienda Casa Bianca

Oltre a questi contributi in politica estera, i quattro anni di Trump ci hanno anche insegnato molto su come funzionano le logiche del potere politico e di quello nel mondo del business. Una volta entrato in politica, Trump ha applicato nella sfera pubblica esattamente lo stesso approccio che ha seguito per mezzo secolo nel mondo degli affari. Ha trattato i cittadini come suoi dipendenti che poteva gestire a suo piacimento e, se necessario, licenziare.

Ha considerato la sua presidenza nello stesso modo in cui Jeff Bezos, il fondatore e amministratore delegato di Amazon, considera la sua posizione in azienda: può fare tutto, privo di ogni limite, di ogni regola, di ogni legge.

Molti accusano Trump di ignoranza, ma credo che sia il modo sbagliato di affrontare la questione. Non è di certo interessato alla Costituzione degli Stati Uniti e alle complesse regole su cui si basa la politica in una democrazia perché lui – forse coscientemente, forse per istinto – è convinto che quelle regole non dovrebbero esistere.

Le uniche regole che gli sono familiari sono quelle delle aziende, dove i conflitti si risolvono urlando “You are fired”, sei licenziato. Una decisione puramente gerarchica basta sul potere determinato dalla ricchezza e non limitata da alcun vincolo esterno.

Introducendo i principi dell’economia nella politica, i neoliberisti hanno fatto un grave danno alla dimensione pubblica del processo decisionale e alla democrazia. Hanno sospinto molte società di nuovo verso il basso, al livello dove tutto ciò che conta è il conflitto tra interessi personali. Trump è lo studente perfetto di questa scuola neoliberista perché ne applica i principi senza infingimenti, senza ritrosie, senza ipocrisie.

Giù il sipario

Trump ha anche abbattuto il sipario che di solito separa i cittadini – spettatori del gioco politico – dai governanti e ha squadernato tutti i traffici, gli scambi di favori, i ricatti e gli utilizzi del potere per fini personali un tempo oscuri. Li ha portati in scena, li ha resi visibili a tutti quelli che assistevano allo spettacolo.

Mentre in altre amministrazioni queste attività illegali o semi legali – come ricevere soldi da soggetti stranieri, saltare da una carica redditizia all’altra, imbrogliare sulle tasse- erano praticate con discrezione e perfino con decoro, durante gli anni di Trump sono state condotte in pubblico, senza alcuna barriera a nasconderle dagli occhi dei cittadini.

E’ stato grazie a Trump, ci tocca ammettere, che siamo stati in grado di vedere l’enorme corruzione che sta al centro del processo politico.

Ma Trump ha fatto anche  molto di più. Lo stile che ha portato alla presidenza era lo stesso che aveva affinato in cinquant’anni di affari che hanno sempre incluso pratiche illegali o comunque non del tutto legali. Pratiche che non gli hanno impedito di avere una brillante carriera nella comunità imprenditoriale di New York, diventare ricco, popolare, ospite gradito a moltissime feste in città, incluse quelle per finanziare campagne elettorali come quella di Hillary Clinton per il Senato degli Stati Uniti. Il solo fatto che lo stile di Trump non venisse considerato anormale o censurabile rendeva chiaro che tutti quelli intorno a lui avevano usato gli stessi mezzi per arrivare in vetta. E questo non valeva soltanto a New York, ma in tutto il mondo: da imprenditore Trump ha concluso accordi per le sue varie attività in Scozia, in Russia, in Medio Oriente, in Cina… Alcuni dei suoi sodali lo hanno tradito, per ottenere contratti milionari, ma nessuno scandalo per Trump: lui avrebbe fatto lo stesso al loro posto.

I peccati vanno tenuti segreti

Trump ci ha dato un’ultima lezione importante. Ha mostrato la profondità della corruzione e dell’impunità per i crimini al centro della politica e del business. Si tratta di peccati che non possono essere perdonati, ma se coltivati nel segreto sono accettati o almeno gestiti. I peccati ostentati non lo sono. Coloro che arriveranno ora alla Casa Bianca al posto di Donald Trump faranno del loro meglio, non per cambiare la natura del potere, perché le crepe che abbiamo visto negli anni del trumpismo sono sistemiche, ma per nasconderla.

Però ora che abbiamo visto la verità, sarà molto più difficile oscurarla di nuovo e pretendere che non sia accaduto nulla.

Questo articolo è uscito in inglese sul blog di Branko Milanovic Global Inequality.

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