Settantasei anni sono trascorsi da quando, nella gelida mattina del 27 gennaio 1945, i soldati dell’Armata Rossa varcarono i cancelli di Auschwitz e si trovarono di fronte l’orrore del lager nazista. I sovietici liberarono circa 7000 prigionieri ancora in vita. Videro le macerie dei forni crematori, fatti saltare in aria dai tedeschi nel tentativo disperato di occultare le prove del genocidio. Si addentrarono tra i sentieri e gli edifici di quel luogo di morte, in cui in breve tempo erano state uccise oltre un milione di persone, dopo la “soluzione finale” decisa da Hitler contro gli ebrei.

Oggi l’imperativo della tradizione ebraica “Zakhòr” (“ricorda!”), ha acquistato un valore universale, in riferimento alla Shoah. Tanto che nel 2005 l’Onu ha istituito il Giorno della memoria, da celebrarsi ogni 27 gennaio. Da allora, si sono moltiplicate le iniziative culturali e pedagogiche, come il treno della memoria, i viaggi delle scuole ad Auschwitz. Visitare quel lugubre angolo d’Europa, in una sorta di pellegrinaggio civile, è necessario.

Assistiamo però al paradosso di una memoria istituzionalizzata e celebrata con solennità che non riesce ad arginare l’antisemitismo, che anzi aumenta, dilaga nel web ed esplode non di rado in atti di violenza contro gli ebrei, in molti paesi.

Se questo è un uomo

Per questo gli interrogativi che il Giorno della memoria pone sono molti. Come ricordare, quando la generazione dei testimoni si sta esaurendo? Chi raccoglierà l’eredità di quegli ex deportati, che attraverso il doloroso racconto delle persecuzioni subite hanno mostrato l’abisso in cui l’umanità sprofonda quando si scatenano gli odi più oscuri? Come trasmettere la coscienza storica a un mondo affetto da presentismo, schiacciato sull’oggi, privo di visioni per il futuro e incapace di trarre lezioni dal passato?

C’è anche, come una pagina nascosta della Storia, la vicenda dei rom, ai quali la coscienza europea non ha mai riconosciuto di essere stati vittime della persecuzione, sebbene nei lager nazisti ne siano stati uccisi centinaia di migliaia, forse mezzo milione. Il loro è un genocidio dimenticato. Sempre colpevoli, i rom, agli occhi degli italiani e degli europei. Sono un popolo considerato ancora oggi “abusivo”, intruso. L’Europa del secondo Novecento si è interrogata sulla violenza scaturita dall’antisemitismo, mentre ha continuato a ignorare l’antigitanismo.

Auschwitz è una pietra d’inciampo nella coscienza della civile Europa. È un nome incancellabile. Dimenticarlo, significherebbe tradire il ricordo delle vittime del genocidio, ma anche abbassare la guardia di fronte al razzismo e all’antisemitismo, spettri che incombono minacciosi anche sul nostro tempo. “Mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo, Gerusalemme”, recita un salmo della Bibbia. “Mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo, Auschwitz”, dovremmo anche dire.

Ogni memoria, anche quella forte della Shoah, va alimentata dalla cultura e dalla conoscenza storica, altrimenti sbiadisce e diventa mera retorica. Per ricordare davvero, occorre avere senso storico e comprendere i rischi che la dimenticanza del passato pone nel nostro tempo. Non si tratta di fare analogie improbabili tra il passato e il presente, ma di trarre dal passato qualche lezione.

Alcuni giorni fa è circolata sui social la fotografia di un uomo nudo, inginocchiato sulla neve, con lo sguardo a terra, visibilmente disperato. Un migrante intrappolato in un campo in Bosnia, lungo quella rotta balcanica che è diventata un attraversamento dell’inferno per chi spera di raggiungere l’Europa. All’immagine molti hanno associato la celebre poesia di Primo Levi: “Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case, / voi che trovate tornando a sera / il cibo caldo e visi amici: / considerate se questo è un uomo…”.

Auschwitz è il simbolo della privazione dell’umanità. Continuare a farne memoria ha soprattutto il senso di condannare e di combattere ogni privazione di umanità nel tempo in cui viviamo.

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