Gli Emirati Arabi Uniti sono diventati l’hub ufficioso dell’oro africano? È quello che sostengono alcune indagini e che qualcuno all’Onu sospetta. In aprile scorso la Financial action task force degli Stati Uniti ha messo il paese sotto osservazione sostenendo, mediante numerosi indizi e testimonianze, che leader cleptocrati africani e capi ribelli trovano comodo smerciare il metallo giallo proprio a Dubai, dove i controlli sono pochi e le filiere si confondono.

D’altronde sono i dati a parlare: dal 2006 al 2016 la parte dell’oro africano che passa per gli Emirati Arabi Uniti è salita dal 16 per cento al 50 per cento. Secondo The Sentry, un team investigativo americano di inchieste che insegue i soldi sporchi legati ai criminali di guerra africani e ai profittatori transnazionali dei conflitti, ormai il 95 per cento dell’oro estratto in Africa orientale e centrale transita per Dubai e da lì, dopo essere stato mischiato, entra legalmente nel mercato internazionale. Le Nazioni Unite dichiarano che diverse milizie in Repubblica Democratica del Congo sono coinvolte nel traffico.

Un settore in espansione

Negli ultimi 15 anni il settore dell’oro in Africa è in continua espansione, determinando la comparsa di una miriade di micro imprese minerarie artigianali. Non tutti i paesi produttori dispongono di raffinerie per purificare il metallo separandolo dalle scorie, che spesso sono all’estero (come quelle del Golfo). In Africa ne esistono di private, in genere di piccole dimensioni e controllate da intermediari stranieri. In certe aree della Repubblica democratica del Congo, dei grandi laghi, del Ghana, del Burkina Faso o del Sudan si è andata creando un’economia mineraria regolamentata che, oltre ai minatori, coinvolge decine di migliaia di persone in una fitta rete commerciale di piccoli mercanti, procacciatori, agenti, trasportatori, produttori di utensili ecc.

Di mano in mano

In zone instabili o di conflitto tale universo è attaccato da gruppi armati, contrabbandieri, bande criminali o trafficanti che cercano di asservire i minatori e soprattutto di sostituirsi agli intermediari legali. Il mercato dell’oro è un impasto di luce e ombre. Prima di giungere sul mercato mondiale la filiera dell’oro africano passa attraverso varie mani: una rete di piccole raffinerie e di agenti locali connessa a compagnie straniere dai pochi scrupoli e alla ricerca del massimo guadagno.

Nel caso dell’Africa centro-orientale l’hub principale di tale rete è Dubai dove pare che la gran parte dell’oro vi giunga in maniera illegale, cioè senza aver pagato le royalty al paese di produzione. Dalle accurate ricerche svolte da Patrick Smith, direttore di Africa confidential, e dal suo team, si calcola, ad esempio, che da Bukavu nel sud Kivu transitino circa 300 chili di oro al mese verso il Golfo, mentre le cifre ufficiali dichiarate ne registrano solo cinque. A Dubai operano con pochi controlli i grandi intermediari internazionali.

Oggi le raffinerie locali della regione dei grandi laghi possono raffinare minerale per 330 tonnellate all’anno. Le più grandi sono sotto il controllo della società ugandese African gold refinery (con una capacità di 219 tonnellate annue) e di quella ruandese Aldango (che può processarne 73 milioni). Si è scoperto che entrambe fanno capo ad una società belga che ha il proprio sportello commerciale a Dubai. Il vantaggio è che negli Emirati il metallo prezioso viene mescolato con altro oro in modo da cancellare ogni traccia.

I conti non tornano

Nel 2018 il Sudan ha prodotto 93 tonnellate di oro raffinato, come dichiarato ufficialmente dal governo, issandosi al terzo posto in Africa dopo Ghana e Sud Africa. Ma le cifre non tornano. Mentre lo stato ha dichiarato di aver guadagnato dalle esportazioni 8,6 miliardi di dollari, qualcuno si è preso la briga di sommare le spese di acquisto da parte dei vari importatori finali. Il totale è risultato di molto superiore: 12,5 miliardi. Secondo i ricercatori americani di Global financial integrity, la differenza è la parte che transita negli Emirati senza pagare tasse e royalties. Dopo la caduta del regime di Omar el Bechir il settore è stato riordinato e ora il nuovo governo dichiara 16 miliardi di esportazioni aurifere all’anno.

La strategia jihadista

Nel Sahel i jihadisti stanno tentando di prendere il controllo delle miniere che nell’ultimo decennio si sono moltiplicate. In Niger, Mali e Burkina si producono circa 50 tonnellate annue. La differenza con altre aree è che in questo caso si tratta di una miriade di piccoli minatori artigianali con regolare licenza, facili da attaccare ma anche molto mobili. Dopo che in Burkina sono avvenuti circa 25 attacchi a piccoli siti minerari con decine di vittime, il governo ha chiuso le aree di sfruttamento spostando forzatamente popolazione e minatori. Il problema in questo caso è che in tal modo si è distrutta una fonte di sviluppo locale che si stava rivelando proficua.

Dall’altra parte del continente, in Zimbabwe, la crescita è stata esponenziale: nell’ultimo biennio l’oro è diventato il primo prodotto da esportazione del paese per circa 1,5 miliardi di dollari annui. Ma qualcuno sospetta che si tratti in parte di oro sudafricano illegalmente trafficato. Anche in questo caso l’oro finisce a Dubai o in India. Il caso del Zimbabwe ha attirato l’attenzione del Tesoro Usa che ha sanzionato il chiacchierato businessman Kudakwashe Tagwirei, il boss locale dell’oro chiamato anche “ape regina” che mira al controllo dell’unica raffineria aurifera del paese.

Tali scandali hanno convinto la conservatrice London bullion market association (Lbma) a prendere un’iniziativa per ridurre il commercio illegale dell’oro, così come anni fa fu fatto per i “diamanti di sangue”. Se le sue raccomandazioni non saranno seguite, la Lbma è in grado di imporre il boicottaggio dell’oro che passa dagli Emirati. Dal momento che il metallo prezioso ormai rappresenta il 20 per cento delle esportazioni del paese, le ong che lavorano nel settore (Sentry, Global witness, Impact ecc.) sperano che tali passi possano avere un serio impatto.

Da qualche tempo gli Emirati puntano molto sull’Africa orientale: sono diventati uno dei grandi partner economici del continente sub-sahariano (con oltre 250 miliardi di dollari di investimenti); hanno preso il controllo di importanti porti; intendono partecipare alla parte africana della Road and Belt Initiative cinese; non disdegnano di ingerirsi nelle crisi politiche locali, cercando di influenzare con soldi e armi. Non sorprende dunque l’interesse dedicato all’emergente mercato aurifero del continente.

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