L’interdipendenza è il mantra dei nostri tempi. È un’idea del XIX° secolo, forse anche della fine del secolo precedente, che ha fatto negli anni molti adepti. Le organizzazioni internazionali innanzitutto: da quella olimpica, a quella telegrafica e telefonica, a quella dei trasporti e così via, seguendo il progresso delle scoperte scientifiche.

D’altronde tra multilateralismo e innovazione tecnologica i contatti sono molti e soprattutto la coerenza logica è identica: il sogno di un mondo unito. Poi c’è stato il processo che ha portato dalla Società delle nazioni alle Nazioni unite, pronte ad assorbire tutta la famiglia delle organizzazioni mondiali, o quasi.

L’ottimismo del positivismo progressista voleva rappresentare la lingua del futuro. Così si sono formate le prime globalizzazioni: il Commonwealth, le Americhe giardino degli Stati Uniti, i primi disegni di unità europea o di Eurafrica. Anche i mondi coloniali rappresentavano una specie di piccola globalizzazione tenuta insieme da lingua e cultura prima ancora che dal commercio.

In molti hanno cercato il segreto del governo globale che ancora non si chiamava così se non nei libri. Sia il comunismo internazionalista che il liberalismo hanno voluto creare imitatori e hanno tentato di solidificare legami indistruttibili tra popoli e nazioni sorelle.

Globalizzazione comunista

In realtà una globalizzazione comunista è esistita e ha anche imparato (vedi la Cina) a resistere alle politiche di embargo o sanzionatorie utilizzate spesso (troppo?) dal mondo libero.

La stessa Trilaterale voleva essere un modello globalizzato di tre poli (Usa, Europa, Giappone) basato sul libero scambio. Gli storici ancora discutono se la crisi finale dell’Urss sia dovuta al fallimento del suo modello economico oppure all’indebitamento derivante dal connettersi con il mercato libero.

Molti stati (sia filo-Urss che soprattutto non allineati) per decenni hanno tentato di sfuggire alle dipendenze del post colonialismo, scegliendo per un’economia statalizzata che innescasse “auto sviluppo”, come si diceva allora.

Importante è stato l’esempio dell’autogestione (cosviluppo per rimanere nel gergo) “alla jugoslava” (in realtà paese molto legato all’economia occidentale) o i tentativi di “industria industrializzante” nordafricani (ancorché molto legati all’economia del petrolio).

Malgrado l’idea multilaterale servisse a molti governi per far udire la propria voce all’Onu, dal punto di vista economico in numerosi casi si è scelto per la disconnessione dall’economia occidentale, anche a costo di pesanti sacrifici.

Anzi: gli choc petroliferi degli anni Settanta hanno fatto capire che l’arma dell’interdipendenza era a doppio taglio, tanto da poter essere usata contro l’occidente.

Un nuovo medioevo?

Dalla fine della Guerra fredda si sono moltiplicate sia le organizzazioni internazionali che il numero degli stati, creando un reticolo multilaterale molto più fitto. Da un certo punto in avanti non sembra che vi sia più tanta differenza tra le politiche interne dei paesi e quelle internazionali: beni pubblici globali, reti globali, obiettivi del millennio, obiettivi di sviluppo sostenibile e così via.

Accanto a ciò una rete informale di ong mondiali ha visto la luce e ha iniziato a contare. Ma non tutti sono ottimisti: la fine del bipolarismo e l’inizio di una situazione più fluida ha spaventato molti.

Vi sono coloro che hanno annunciato l’avvento di un nuovo medioevo: stati indeboliti o che falliscono, non saranno più in grado di difendere la sicurezza dei loro cittadini e di conseguenza vi saranno più guerre.

Non si tratta solo di una reazione conservatrice e tradizionalista: anche gli anonimous anarchici o di sinistra, i No-global o i No-logo contrari alle grandi multinazionali (le vere protagoniste della globalizzazione del mercato), si sono opposti al disegno globale additando l’opera di forze predatici sotterranee corrotte o addirittura criminali.

Oltre a tali versioni estreme, vi sono quelli che si preoccupano della tenuta del sistema sostenendo che l’Onu sia in ritardo: temono destabilizzazioni geopolitiche, il proliferare di guerre interne, flussi migratori incontrollati, crisi energetica e ambientale e così via. La preoccupazione maggiore è che svanisca lo sdegno per la guerra: quel “never again” del dopo Seconda guerra mondiale.

Definire il terrorismo

In sintesi ecco le due facce dell’odierna globalizzazione: progresso interconnesso o collasso nel caos? Le frontiere sono già diventate un tema polemico quando gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 hanno aggiunto a tutto questo la questione della sicurezza, che è diventata subito prioritaria.

In quell’occasione la discussione che si è tenuta all’Onu sulla definizione di terrorismo ha preannunciato l’ambiguità con cui i vari stati hanno manipolato in seguito il concetto.

Non ci si è messi d’accordo su una definizione comune ma ogni paese ha imparato ad additare come terroristi i propri nemici interni, affibbiandogli un’etichetta indelebile e facilmente comprensibile.

Era già accaduto prima delle Torri gemelle (basti pensare alla guerra civile algerina degli anni Novanta, il cosiddetto decennio nero) ma ora si generalizza. In tale contesto si creano anche le premesse ideologiche per il nuovo modello di governance autoritaria presto adottata da molti paesi: la sicurezza nazionale è un’ottima giustificazione per piegare ad altri scopi qualunque istituzione democratica.

L’èra deli allarmi

Il secondo decennio del nuovo millennio è diventato così l’èra degli allarmi: annunci di crisi a ripetizione (terrorismo ma anche ambiente, finanza, povertà,  migrazioni e infine epidemie) di fronte alle quali lo stato appare debole e il multilateralismo impotente.

Si comprende bene in tale contesto come l’interdipendenza venga percepita come una minaccia e non più come una risorsa. L’Europa stessa si sente accerchiata da un’America non più interessata (a cominciare con Barack Obama e poi con Donald Trump), una Cina vincente e una Russia arrabbiata e aggressiva.

Mettono paura gli stati troppo forti ma anche quelli troppo deboli o falliti, che possono provocare danni ingenti, come Libia, Iraq ma anche Siria, Yemen e così via. Come dopo la grande crisi del 1929, anche con quella del 2008 le tentazioni di chiusura e blocco autarchico o protezionista si sono fatte strada in molti paesi, creando la base di consenso per partiti sovranisti o populisti di vari tipo.

Si tratta di un’avventura fallimentare perché la globalizzazione ormai è troppo forte per cedere anche se si trasforma: chiunque provi a staccarsene rischia l’isolamento. È il tema della Brexit dove un ritorno alla global Britain appare solo una chimera.

Tuttavia dalle crisi precedenti i governi democratici hanno imparato almeno una lezione, impostando politiche di assistenza e sussidio mai viste prima allo scopo di reagire alla crisi del lavoro e della disoccupazione.

I mercati emergenti, in particolare asiatici, indicati fin dagli anni Novanta del secolo scorso come l’eldorado di una globalizzazione benevola, diventano ora dei territori di scontro tra varie influenze geopolitiche.

Oggi l’Asia è terreno di confronto tra Cina e Stati Uniti dove la dipendenza dall’una o dagli altri sarà discriminante per il futuro di ciascun paese. Così ora si è giunti al paradosso che l’interdipendenza sia percepite anche come fattore di dipendenza.

Ciascun governo – specie le medie potenze – si chiede come poter riprendere il controllo. L’attuale crisi monetaria della lira turca è il risultato di tale tentativo. In molti paesi africani si parla di seconda o nuova indipendenza per uno sviluppo autocentrato.

L’esempio migliore è la polemica sulla creazione di una moneta comune africana che sostituisca il franco africano occidentale o centrale, legato alla divisa francese e ora all’euro.

Paradossalmente la pandemia ha ridato fiato a una nuova interdipendenza, quella sanitaria di cui si sente l’urgenza. Anche se viaggi, turismo, spostamenti interni e trasporti sono in sofferenza, la necessità di vaccinare tutto il pianeta sta creando le premesse di un rilancio globale di tutte le interconnessioni. Alla fine sarà proprio il Covid a rilanciare la globalizzazione? 

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