Alla fine è arrivato pure Kissinger a dirci che non è realistico porsi come obiettivo il ritiro dei russi dalla Crimea. Non ci si poteva aspettare un registro diverso da chi ha trascorso la vita a trasformare in precetto e dottrina la realtà, più specificamente quelle realtà in cui i forti prevaricano i deboli, magari predicando il “miglior interesse” di questi ultimi.

All’indomani dell’annessione della Crimea, mentre gli ucraini a nord tagliavano le forniture d’acqua lasciando a secco la penisola, Putin aveva magnanimamente rassicurato tutti circa il fatto che la Russia non aveva certo bisogno di spingersi oltre. Otto anni dopo è passato all’offensiva diretta. Fermato da una resistenza che gli impedisce la manovra, non si fa scrupolo di usare massicciamente il fuoco d’artiglieria sulle città.

L’indipendenza

Più a sud, a 170 miglia dalla costa turca, forse la Crimea pone oggi qualche questione differente rispetto agli altri territori occupati. Effettivamente, pur innescando dispute costituzionali, l’esistenza di una Repubblica autonoma di Crimea venne riconosciuta dagli organi rappresentativi ucraini, dando seguito a un referendum locale (gennaio 1991) nell’imminenza del crollo sovietico.

Più volte lo stesso Putin ha parlato della Crimea, proponendo equiparazioni con il Kosovo. Non c’è bisogno di addentrarsi nei meandri del diritto internazionale per avere contezza di come elementi di sostanza, percezioni vernacolari e il più trito opportunismo si intreccino perversamente quando si affronta il tema della sovranità.

Fu nei giorni che seguirono il maldestro tentativo di golpe, con Mikhail Gorbaciov messo agli arresti nella sua dacia di Crimea, che l’Ucraina dichiarò l’indipendenza, facendo suonare a morto la campana: si trattava di una separazione troppo cospicua perché il già barcollante gigante sovietico potesse restare in piedi.

Del resto, a spingere gli stessi deputati comunisti ucraini verso questo esito, avvicinandoli ai nazionalisti, era stata la necessità di mettere il paese al riparo dall’imprevedibile corso politico in Russia, dopo che il loro stesso segretario venne arrestato a Mosca. Era il 24 agosto, da allora celebrato come festa dell’indipendenza ucraina.

Correva l’anno 1991: ricordo come la fine dell’Unione venisse paragonata da parecchi alla lacerazione della Germania post bellica, e come questo sentire non avesse bisogno di troppi bicchieri per essere espresso candidamente.

Non era, in altre parole, appannaggio esclusivo degli insopportabili nostalgici del nazionalismo granderusso, ma la sottolineatura di evento traumatico nelle biografie e nelle vite quotidiane, rispetto al quale la riunificazione tedesca sembrava voler mostrare che la ruota lentamente gira: dettata da eventi più grandi e crimini da sanare, anche questa frattura si sarebbe un giorno ricomposta senza bisogno di sparare.

Le ambizioni di Mosca

Per parte sua, Mosca aveva apposto una clausola implicita al riconoscimento del nuovo vicino, condizionando tale atto all’esistenza della cornice di cooperazione della Comunità degli stati indipendenti (Csi), il meccanismo di sicurezza regionale che subentrava all’Unione sovietica. Tale indicazione di marcia si sarebbe dimostrata irrealistica.

Eltsin avrebbe presto invertito la rotta, puntando a ri-accentrare la federazione. Proponeva formalmente un’unione della Russia con Bielorussia, Ucraina e Kazakistan nell’ambito delle strutture della Csi. In un discorso al parlamento polacco del giugno 1997 il presidente ucraino Kuchma, propugnatore dell’opzione di neutralità, affermava invece che il principale obiettivo della politica estera ucraina fosse guadagnare pieno riconoscimento come paese centroeuropeo. Un anno dopo, nell’agosto 1998, Kiev mise in chiaro di non considerarsi vincolata al rispetto degli accordi di sicurezza collettivi Csi. L’Ucraina ha in buona sostanza a lungo schivato i meccanismi diretti da Mosca.

Verso il campo Nato

Ma torniamo in Crimea: nel 1997 si svolsero esercitazioni militari a guida americana davanti alle coste occidentali della penisola. Nell’aprile successivo, rappresentanti militari dell’ambasciata Usa si spinsero a visitare le sottounità della guardia nazionale ucraina di stanza in Crimea. In questa occasione il Cremlino, rimasto fino ad allora relativamente freddo rispetto al montare e decadere del separatismo russo nella penisola, rese nota la propria contrarietà, declinando l’invito a partecipare o a inviare osservatori.

Negli ambienti patriottici di Sebastopoli Eltsin era ormai dipinto come un provocatore “vendipatria”, colui che, ponendo formalmente fine al contenzioso sulla flotta del Mar Nero, aveva di fatto eliminato l’ultimo ostacolo sulla strada che porta l’Ucraina nel campo Nato. Seguì un periodo in cui tutto e il suo contrario sembravano possibili.

Ma a metter fine alla riluttanza del parlamento ucraino a ratificare una volta per tutte gli accordi tecnici sulla flotta arrivò, nel 1999, l’intervento Nato in Kosovo. Il corso sostanzialmente filo occidentale di Kiev si trovò in serie difficoltà, tanto che si vide il premier ucraino volare per primo a Belgrado, in una goffa missione di mediazione fra Nato e Serbia, unicamente volta a guadagnare respiro sul piano domestico.

L’annessione russa della Crimea del 2014 non arriva a freddo, ma si avvita su due decenni di riforme frustrate, che hanno visto l’espansione di reti di potere mafiose sullo sfondo di tensioni sociali e geopolitiche piuttosto evidenti. La stessa “primavera di Crimea”, allora annunciata dal Cremlino, è durata poco: all’iniziale entusiasmo di qualche imprenditore andato sul mar Nero a cercar fortuna, subentra presto il copione imposto dagli oligarchi vicini a Putin.

I nuovi potenti non fanno prigionieri: rimpiazzano le élite locali lanciandosi a mani basse nell’accaparramento di terra, produzione vinicola, infrastrutture turistiche, telecomunicazioni, assicurazioni sanitarie e costruzioni. Prevedibilmente, lo fanno distribuendo a parenti e clienti, esibendo le loro dacie sul mare mentre le famiglie tatare vengono sgomberate per far posto a nuovi mirabolanti grattacieli.

Oggi, nel pieno del conflitto, gli abitanti della penisola si vedono rifiutare il ricovero in ospedale perché i letti sono destinati ai militari feriti nel Donbass. Nel frattempo, i satelliti ci hanno mostrato il porto di Sebastopoli utilizzato per il carico di grano ucraino trafugato tramite navi russe, poi salpate alla volta delle coste libanesi e siriane. Da qui la richiesta alla Turchia di chiudere gli stretti, interpretando in modo restrittivo le clausole dei trattati internazionali.

Questione Turchia

Si arriva così alla questione Turchia, ovvero del “secondo esercito della Nato” e, in barba alla retorica della “comunità atlantica unita da norme e valori”, di una leadership autoritaria preoccupata per la propria rielezione, che con la Russia di Putin si pone “da potenza a potenza”: rivale in numerosi teatri di conflitto armato, dall’Africa e la Libia fino al Caucaso, passando per il Mediterraneo orientale e il levante.

Protagonista di tre distinte invasioni della Siria dal 2016, con tanto di sistematico furto del raccolto agricolo nei territori occupati ai curdi, Ankara approfitta oggi della guerra in Ucraina per rendersi protagonista, inclusa la preparazione di una quarta invasione per chiudere definitivamente con ogni autogoverno curdo nel vicinato. Mentre incassa l’apprezzamento del Vaticano per perseguire la via diplomatica fra russi e ucraini, Erdogan pretende di dettare le condizioni alla Nato, accusando i paesi nordici di alimentare il terrorismo nel dare ospitalità e riconoscimento ai terroristi.

Alla Turchia conviene il gioco di essere l’alleato capace di tutto: gomito a gomito con i jihadisti, feroce nel negare un dialogo con i curdi proprio mentre ovunque si stempera la retorica della guerra al terrore.

Attendendo gli sviluppi sul fronte del grano e dei porti ucraini sul mar Nero, la Crimea resta centrale nella definizione dei negoziati e delle architetture di sicurezza europee. Non è azzardato leggere la penisola come ponte fra dinamiche di conflitto caucasiche e balcaniche. In queste dinamiche c’è un terzo convitato piuttosto evidente, completamente disallineato rispetto alle democrazie raccolte nell’Alleanza atlantica.

Sulla Crimea la Turchia di Erdogan continuerà a stare dalla parte dei tatari. «A proteggere la loro identità e assicurare il loro welfare», ha dichiarato in questi giorni il ministero degli Esteri di Ankara. La coesione politica dei tatari, temprata fra confino e gulag, non può essere sottostimata, nonostante la messa al bando delle loro istituzioni, da Mosca definite “organizzazioni estremiste”, e nonostante l’arresto o l’espulsione dei loro leader storici. In questo triangolo, fra smodate ambizioni imperiali, pulsioni revivaliste e narrazioni che celebrano l’idea di sovranità in termini territoriali esclusivi, sono iscritte le chances di una via d’uscita politica alla guerra e di un equilibrio sostenibile per la frontiera d’Europa.

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