Cuba è un piccolo paese. Ma la sua rivoluzione è stata, per l’impatto nel mondo, la terza in ordine di importanza nel Novecento, dopo le rivoluzioni russa e cinese. Fidel Castro rompe l’equilibrio della Guerra fredda, la divisione dell’emisfero occidentale sancita a Yalta. Era un gioco pericoloso, che peraltro lui ha inizialmente condotto in modo irresponsabile. Sappiamo oggi che durante la crisi dei missili cubana, nell’ottobre 1962, quando il mondo si ritrovò sull’orlo della terza guerra mondiale e dell’autodistruzione, lui esortava i sovietici a colpire per primi, a sferrare un attacco nucleare preventivo contro gli Stati Uniti. Per fortuna (di noi tutti), Kruscev non lo ascoltò e alla fine scese a patti con Kennedy.

Intanto nella sua isola Castro aveva realizzato la riforma agraria, posto fine a discriminazioni razziali che duravano da secoli, ma anche imposto il partito unico. Che Guevara fu inizialmente presidente della Banca centrale (1959-1961) e poi ministro dell’Industria e dell’economia (1961-1965). Promosse il lavoro «volontario», che in realtà voleva dire «non pagato»: ogni buon cittadino era chiamato a svolgerlo, in aggiunta al normale orario di lavoro, per consolidare le vittorie della rivoluzione. Camilo Cienfuegos, comandante vittorioso che entrò a L’Avana il 1° gennaio 1959 accanto a Fidel, di cultura libertaria e dal carattere solare, era forse più amato del “Che” (benché all’estero sia molto meno noto). Non era entusiasta della svolta autoritaria cui sembrava avviato il regime. Ma morì misteriosamente durante un volo notturno nell’ottobre 1959: il suo aereo non fu mai ritrovato, le autorità cubane non sono mai riuscite a dare una spiegazione di quanto accaduto.

Pure, a conti fatti, quello cubano non è stato il peggiore fra i regimi comunisti. Forse, anzi, in assoluto quello meno oppressivo (assieme alla Jugoslavia, ma solo dopo il 1961). Eppure, come tutti i regimi comunisti che si sono visti nella storia, nessuno escluso, Cuba non garantisce le fondamentali libertà dell’uomo: la libertà di stampa, di espressione, di associazione sono seriamente compromesse e possono costare il carcere.

Dal 1965 al 1968 ci furono addirittura campi di lavoro forzato, per dissidenti e omosessuali (ospitarono più di trentamila persone). Il regime può presentarsi con un volto espansivo, allegro e caraibico. Ma è un regime, ancora ai nostri giorni: secondo la ong americana Freedom House Cuba è oggi il tredicesimo paese meno libero al mondo; meglio certo della Corea del Nord (terza), meglio anche dell’Arabia Saudita (settima), ma peggio perfino della Russia di Putin (ventesima).

Il reddito

Quanto al reddito, la performance del regime non è certo brillante, ma non è nemmeno disastrosa come in altri casi (la Germania Est rispetto alla Germania Ovest, la Corea del Nord rispetto a quella del Sud). Alla vigilia della rivoluzione, l’isola aveva un livello di reddito per abitante relativamente elevato, il doppio di Haiti e quasi il doppio della Repubblica Dominicana.

Oggi a Cuba il reddito è di poco superiore a quello della Repubblica Dominicana, mentre entrambe sono molto meno povere della sfortunata Haiti. Dati sessant’anni di embargo statunitense (solo in parte bilanciati da trent’anni di sovvenzioni sovietiche), poteva andare peggio. Ma va detto che stiamo comunque confrontando economie poco complesse, rispetto a quelle industrialmente molto avanzate dell’Europa o dell’Asia orientale.

Bisogna poi considerare che Cuba è in relativo declino demografico, rispetto alla Repubblica Dominicana. Nel 1960 aveva più del doppio degli abitanti (7 milioni contro 3,2), oggi i due paesi sono quasi alla pari (11 milioni). Anche questo può spiegare la tenuta del reddito medio, in un paese a base agricola; ma è dubbio se in sé rappresenti un male, o un bene (la crescita esponenziale degli abitanti, verificatasi nel mondo negli scorsi decenni, è un serio problema ambientale). Si dirà, negli Usa vivono circa 2 milioni di cubani (spesso erano l’élite economica e professionale dell’isola, fuggita dal regime); ma la popolazione di immigrati dominicani è analoga.

Pure, la rivoluzione cubana può vantare importanti successi. Nella sicurezza personale, ad esempio, tenuto conto che in quel quadrante vi sono alcuni paesi con i più alti tassi di omicidi al mondo: per le strade di L’Avana in genere si può passeggiare senza paura, anche di sera, a differenza di altre città dell’America Centrale, o del Venezuela, o perfino della California (Los Angeles, San Francisco).

Ma i risultati più importanti sono nella scolarizzazione e nella speranza di vita, nei diritti sociali. Nel 1960 a Cuba la speranza di vita era inferiore di 6 anni a quella degli Stati Uniti (64 contro 70). Oggi i due paesi sono alla pari (79), nonostante gli enormi divari di reddito. Va detto però che la Repubblica Dominicana – il paese storicamente più simile a Cuba prima della rivoluzione, che assieme ad Haiti si estende sull’isola gemella, Hispaniola – nel 1960 aveva una speranza di vita di soli 52 anni e oggi è arrivata a 74: le differenze in quel caso si sono accorciate. L’Italia nel 1960 aveva una speranza di vita di 69 anni (+5 su Cuba); oggi è a 83 (+4). Cuba si è avvicinata a noi, ma non è stato un trend uniforme: nella seconda metà degli anni Settanta, aveva raggiunto il nostro stesso livello; poi ha incominciato a perdere terreno. Questo dato, da solo, può dire molto sulla parabola del socialismo cubano.

Tre opzioni

Dopo il crollo dell’Urss, il regime aveva sostanzialmente tre possibilità. Provare a democratizzare l’isola, magari prendendo una strada socialdemocratica, come aveva tentato di fare Gorbaciov in Unione Sovietica (ma a lui non andò bene). Provare a resistere, lasciando tutto così com’è. Prendere la strada cinese (e poi vietnamita): liberalizzare l’economia ma mantenendo il monopolio politico del Partito comunista. La prima opzione era complicata dall’influenza americana e della comunità cubana in Florida, che faceva temere ai dirigenti comunisti la perdita di ogni privilegio o la galera, se avessero provato a democratizzare il paese (a differenza di quanto successo, invece, in Russia o nelle nazioni dell’Europa dell’est, dove questo rischio non c’era e anzi una parte dell’élite capì che aprendo il paese poteva arricchirsi). Il regime scelse allora la seconda opzione, finché c’era Fidel, per poi iniziare a contemplare (timidamente) il modello cinese.

Dopo le prime liberalizzazioni, avviate da Raul Castro nel 2011, l’economia è andata meglio ma anche le disuguaglianze sono aumentate, di solito a vantaggio dell’élite politica. Oggi a Cuba l’indice di Gini, che misura le disuguaglianze, è 38. Nella Repubblica Dominicana sfiora 44, in Cina arriva a 46,7 (gli Stati Uniti svettano a 48,5). Ma l’Italia, per dire, ha un valore di 33,4. Da noi, e più in generale in Europa continentale, c’è oggi meno disuguaglianza che a Cuba.

In questo contesto, il regime ha sbagliato la gestione della pandemia: aprendo ai turisti, pensando così di potere approfittare della crisi di altre destinazioni; e fallendo il piano di vaccinazione. La recente liberalizzazione di internet e la crisi economica (e alimentare) legata al Covid hanno fatto il resto. Il regime è in crisi, ma in fondo oggi ha di fronte lo stesso bivio di trent’anni fa. Liberalizzare l’economia, provando a mantenere il partito unico, sul modello cinese? O imboccare, con coraggio, la strada che aveva tentato Gorbaciov in Unione Sovietica, cercando di salvare quello che di buono la rivoluzione ha portato (la sanità, il welfare)?

Proprio come allora, questa seconda strada, quella più auspicabile, è anche la più coraggiosa, e per questo difficilmente verrà presa: ci vorrebbero rassicurazioni da parte degli Stati Uniti nei confronti dei dirigenti del regime per una «transizione dolce», ma queste non si vedono, nemmeno con l’amministrazione Biden.

Se gli Usa non capiscono che devono avviare un dialogo per favorire la democratizzazione dell’isola, e che embargo e sanzioni non servono (non sono mai serviti, anzi hanno fornito una giustificazione al regime), più probabile che la via scelta sarà quella del capitalismo autoritario, che sta funzionando così bene in Cina: aprire e liberalizzare ancora di più l’economia, ma senza democratizzare il sistema politico; crescita, ma senza diritti. Con una patina di retorica rivoluzionaria, ma dietro cui c’è solo ormai la sostanza della dittatura. È un film già visto e che, proprio per questo, chi ha veramente a cuore i diritti umani dovrebbe cercare di evitare.

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