La strada di un cuoco non è mai lineare, si districa tra curve a gomito, saliscendi continui, sterzate improvvise, fondi stradali sconnessi e panorami mozzafiato. Una cosa però è sicura: come qualsiasi viaggio, c’è sempre una partenza e un arrivo, che però molte volte è solo una nuova tappa intermedia, sintomo di una continua ricerca di stimoli o semplicemente di fallimenti (propri o di terzi). 

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Alessandro Proietti Refrigeri è un cuoco romano, classe 1988, e quella strada l’ha iniziata a percorrere dal 2000: partito dall’istituto alberghiero Pellegrino Artusi di Roma (nel quartiere Tuscolano), ha iniziato un percorso formativo/lavorativo che l’ha portato per due anni a lavorare al Noma 1.0 di Copenaghen, nel periodo 2013/2015, partecipando anche al famoso pop-up di Tokyo.

Da Roma al Noma

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Nonostante fossimo praticamente vicini di casa, l’ho incontrato di persona per la prima volta a Copenaghen, durante una serata del Saturday Night Project, un momento settimanale del vecchio Noma, durante il quale i ragazzi in cucina presentavano dei piatti da loro creati a tutto lo staff, chef René Redzepi incluso. 

Quella sera ero lì, con la macchina in mano, circondato da una brigata di 30 persone, a due passi da uno degli chef più famosi del mondo, volteggiando tra pass e piatti, cercando di mantenermi quasi invisibile come un fotografo di scena, tutto nel tentativo di raccontare la sua storia: quella di un ragazzo partito da un istituto alberghiero alla periferia di Roma che arriva in una delle cucine più ambite per presentare una sera un piatto di bucce di patate. 

Ritrovarci insieme in quel contesto, due ragazzi della periferia romana, aveva un profondo significato: dimostrare come la scuola pubblica, con i suoi limiti, problemi e difetti, riesca ancora a plasmare le carriere dei giovani che lo frequentano. Riesca ancora a formarli e permettere loro di iniziare un percorso professionale di alto livello.
Così ho seguito Alessandro in Danimarca ma quello stesso anno, ho anche passato del tempo insieme ai ragazzi che in quel momento frequentavano l’alberghiero da cui era partito. Con loro (e con i professori, Enrico Camelio e Danilo Compagnucci, sala e cucina) si è parlato del tema dell’alternanza scuola lavoro, della mancanza di materie prime causata da budget scolastici limitati e del monte ore di pratica molto ristretto, oltre che di speranze, sogni e difficoltà.

Alla scuola dello chef 

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Insieme agli studenti ho condiviso lezioni, momenti di formazione e pause sigaretta, cercando di costruire un rapporto ancora prima di fotografarli, perché prima di una fotografia deve esserci un contatto umano, un rapporto anche minimo, che permetta a chi sta dietro la macchina di non essere solo un “turista in terra straniera” ma qualcuno con un punto di vista più ampio e credibile, sinceramente interessato alle persone che si trova davanti e non solo alla foto cartolina da riportare a casa.

Tra Copenaghen e Roma ci sono migliaia di chilometri, eppure in quelle due cucine, molto distanti non solo fisicamente, ho ritrovato nelle persone incontrate la stessa voglia e curiosità, gli stessi movimenti, le stesse foto fatte con i cellulari da riguardare in un secondo momento, le stesse espressioni di stupore nell’assaggiare qualcosa di nuovo.

La narrazione enogastronomica fa troppo spesso leva sui cuochi e sui loro piatti, ma poche volte ci si sofferma a parlare del luogo da cui essi provengono: la scuola, una stazione di partenza verso lidi ignoti, a volte esotici, altre meno. Un po’ come quelli visitati da Alessandro, che oggi è a capo della cucina del Villa Naj, a Stradella, dove nel 2020 ha conquistato la sua prima stella Michelin. Dal Tuscolano a Stradella passando per Copenaghen e Tokyo: la strada non è mai lineare ma, di sicuro, non annoia mai.

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