Nell’autunno del 2011, l’attenzione dei China watchers di tutto il mondo è su un piccolo villaggio di pescatori nella provincia meridionale del Guangdong: Wukan. Il villaggio, infatti, è teatro di quella che è una vera e propria rivolta popolare contro le autorità locali che avevano requisito illecitamente la terra agli abitanti. I manifestanti accusano i loro rappresentanti a livello di villaggio di aver perseguito il loro interesse personale a scapito di quello della comunità, vendendo il suolo di proprietà collettiva senza previa consultazione. Dopo proteste e manifestazioni gli abitanti di Wukan riescono a destituire il Comitato di villaggio e a indire delle elezioni imparziali e trasparenti.

L’esperimento naufraga però dopo poco tempo. Le autoritàdella contea di Lufeng, nella cui giurisdizione rientra Wukan, rassicurano la popolazione sostenendo che parte della controversia sulla requisizione illecita delle terre era stata risolta secondo la legge, ma i diritti di utilizzo del suolo non vengono realmente restituiti ai proprietari. Nel 2015 alcuni membri del Comitato di villaggio vengono messi sotto indagine con l’accusa di corruzione. Infine, il leader delle proteste, Lin Zuluan, rieletto nel 2015 con il 90 per cento dei voti, viene arrestato l’anno successivo, ancora una volta per corruzione, ed è costretto a confessare i suoi crimini in un videomessaggio televisivo.

La popolazione locale, però, si schiera da subito dalla sua parte, sostenendo che l’accusa fosse infondata e pretestuosa, motivata da ragioni esclusivamente politiche. L’arresto di Lin innesca un’altra ondata di proteste, ma questa volta non ottiene i risultati sperati: seguono arresti e punizioni esemplari per scoraggiare altri possibili disordini. Il silenzio è quel che resta dell’esperimento democratico a Wukan.

Una questione locale

Il caso di Wukan venne celebrato dai media internazionali come una presa di coscienza del valore della democrazia da parte della popolazione e un primo passo di quella trasformazione inevitabile delle istituzioni politiche cinesi, secondo una visione che accompagna le scienze politiche sin dagli anni Novanta. Tuttavia, nonostante le interpretazioni attribuite al caso di Wukan, non si può fare a meno di sottolineare come, in primo luogo, il motivo della protesta era in realtà piuttosto pratico e contingente, poiché si trattò di uno dei tanti soprusi perpetrati dalle autorità locali a danno della classe contadina.

In secondo luogo, un documentario prodotto da Al Jazeera mette bene in luce come l’obiettivo contro cui si rivolgevano i rivoltosi fossero le autorità locali, e non il sistema politico nella sua totalità. Il Pcc era chiamato in causa per dirimere la controversia, il che aveva ovviamente l’obiettivo di risolvere la questione delle terre, ma anche di sfatare il sospetto che la rivolta fosse pilotata da forze straniere ostili desiderose di rovesciare il Partito.

Democrazia nei villaggi

Il caso di Wukan ci pone di fronte a un importante interrogativo: com’è possibile che, in un sistema politico autoritario come quello cinese, siano state indette delle elezioni?

Non è certo un caso unico, ma è dimostrativo di una forma di democrazia rappresentativa ben presente nel sistema di governance locale nella Cina popolare. Dagli anni Ottanta sono stati condotti esperimenti su elezioni multipartitiche a livello di villaggio nelle zone rurali e di quartiere nelle zone urbane. Il sistema della cosiddetta “democrazia di base” (jiceng minzhu) è stata estesa a tutta la Cina rurale dalla fine degli anni Novanta.

È opportuno però precisare che i villaggi, così come le comunità residenziali, non sono formalmente considerati un livello amministrativo governativo, ma sono definite dalla Costituzione della Rpc come “organizzazioni di massa per l’autogestione a livello base” (jiceng qunzhongxing zizhi zuzhi). Solo i livelli superiori rappresentano formalmente delle strutture governative di amministrazione territoriale. Questa distinzione è fondamentale per comprendere il motivo per cui i comitati di villaggio e quelli di quartiere sono l’unica componente della struttura amministrativa del paese in cui i leader possono essere eletti direttamente dalla popolazione e non vengono invece nominati dall’alto, quantomeno formalmente.

Tornare al centro

Il processo elettorale non è mai stato privo di difetti e contraddizioni; primo fra tutti, il controllo del partito sulla selezione dei candidati, nonché l’influenza delle élite locali e la scarsa trasparenza nell’intero processo elettorale. Pur riconoscendo il potenziale democratico nell’autogoverno del villaggio, non si può far a meno di riconoscere che il predominio del partito non sia solo uno difetto accidentale nell’attuale sistema di governo.

Nonostante i difetti, il sistema della democrazia di base si è caratterizzata come una forma di partecipazione della popolazione alla vita politica del paese, seppur a un livello non governativo. Tuttavia, da quando Xi Jinping è salito alla guida della Cina nel 2012, sono emersi nuovi ostacoli allo svolgimento dei processi democratici di base. La lotta alla corruzione lanciata sin dai suoi primissimi anni di governo e la campagna per debellare la povertà assoluta hanno “giustificato” una ricentralizzazione della gestione politica e l’adozione di qualsiasi mezzo pur di portare a compimento gli obiettivi prefissati.

Ciò si è concretizzato in un rafforzamento del controllo da parte degli organi del partito su quelli dello stato. Una recente riforma del sistema della democrazia di base esemplifica la ricentralizzazione in atto. Dal 2019, infatti, il segretario del partito del villaggio assume, per legge, anche la carica di “capo del comitato di villaggio”. Prima di tale riforma, in teoria, il capo del comitato di villaggio non necessariamente era membro del partito ed era eletto da tutti gli abitanti; il segretario del partito del villaggio, invece, era scelto solo dai membri della sezione locale del partito, scelta che poi doveva essere ratificata dal comitato di partito a livello di borgo (xiang).

Invece, dal 2019, queste due figure politiche, prima distinte, vengono fuse e il capo del comitato di villaggio deve necessariamente essere anche il segretario del partito. Questa manovra rappresenta un’azione necessaria, secondo gli organi ufficiali, per contrastare le influenze dell’élite locali. D’altra parte, però, la riforma è una ulteriore manifestazione della scarsa fiducia riposta nei processi decisionali democratici dal basso da parte della dirigenza guidata da Xi Jinping.

Un fronte unico

La democrazia presente al di sopra dei livelli di villaggio nelle zone rurali e di comunità residenziale in quelle urbane non è una democrazia elettorale, bensì è definita come “democrazia consultiva socialista” (shehuizhuyi xieshang minzhu). Questa forma di democrazia affonda le sue radici nell’esperienza del “fronte unito” che vide l’alleanza del partito comunista cinese con altre forze politiche quando vi fosse la necessità di combattere un nemico comune.

L’esperienza cinese del “fronte unito” ha origine dalla nozione omonima elaborata da Lenin e prevedeva che, nelle circostanze storiche in cui si trovava la Cina all’inizio del Novecento, fosse necessario che il Pcc rimodulasse gli obiettivi principali in modo funzionale alla creazione di un’alleanza con altre forze politiche al fine di condurre la rivoluzione nazionale.

Questa strategia si configurò in due esperienze di “fronte unito”: la prima alleanza (dal 1923 al 1927) riguardò il Pcc e il Guomindang (il partito nazionalista) ed era finalizzata a combattere contro l’imperialismo e i signori della guerra; la seconda esperienza di fronte unito interessò gli anni dal 1937 al 1941 e vide un’alleanza tra il Pcc, il Guomindang e altri partiti minori. Alla fine della guerra, questa formulazione del “fronte unito” venne adottata come caratteristica distintiva della strategia politica del Pcc, tanto che anche durante la guerra civile contro il partito nazionalista, il Pcc rianimò l’alleanza con i cosiddetti “partiti minori” e utilizzò la nozione di “fronte unito” per ritrarsi come unico vero rappresentante degli interessi della nazione cinese, screditando il Guomindang.

La guida del partito

Oggi, la “democrazia consultiva” trova riscontro istituzionale nella Conferenza politica consultiva del popolo cinese, un organo statale istituito nel 1949 e concepito inizialmente come un ente provvisorio. Esso aveva il compito di introdurre le prime leggi del paese e condurlo fino all’istituzione del parlamento popolare, l’Assemblea nazionale popolare, che fu creata nel 1954. In realtà la Conferenza politica consultiva è stata mantenuta anche dopo il 1954. Ancora oggi si compone di tutti i partiti minori e di personalità apartitiche, con funzioni non di opposizione al Pcc, ma di consultazione politica non vincolante.

All’interno del sistema della “democrazia consultiva”, come è noto, il ruolo guida appartiene al Pcc. Tale ruolo guida è assicurato da un sistema di cumulo di cariche ai vertici che garantiscono il controllo del partito sugli organi di governo, sicché tutte le funzioni principali all’interno dell’apparato statale sono nelle mani di esponenti del Pcc. Questo sistema implica che, a conti fatti, le decisioni vengono prese all’interno del partito e poi implementate dagli organi di governo.

Professionalizzare il potere

All’ipotesi elettorale, viene contrapposto il principio meritocratico quale valido strumento di selezione della classe dirigente a tutti i livelli, compreso il vertice. Terminata l’era in cui l’ideologia determinava l’ascesa politica, si è assistito, a partire dagli anni Ottanta, a una professionalizzazione del potere e formazione di una élite tecnocratica.

Questo cambio di direzione è stato dettato dalle mutate esigenze nella nuova era di “riforme e apertura”, in cui lo sviluppo tecnologico e l’integrazione nel mercato globale erano diventati le due traiettorie principali. I vertici del Partito e dello Stato possono tutti ormai vantare un alto livello d’istruzione: sono tutti laureati e diversi di loro hanno anche conseguito il dottorato.

Oltre al profilo educativo di alto livello, prima di ascendere ai ranghi più alti, ciascun leader ha maturato esperienze di amministrazione a livello locale. Xi Jinping, ad esempio, prima di raggiungere i vertici nazionali, è stato governatore della provincia del Fujian, in seguito governatore e segretario del Partito nel Zhejiang e infine a Shanghai. In questo modo, nella democrazia con caratteristiche cinesi, la guida del Paese sarebbe diventata ad appannaggio esclusivo di coloro che, emersi per profonda conoscenza e comprovate capacità, si sarebbero dimostrati degni di ricoprire tale compito.

Resta Xi Jinping           

Inoltre, gli anni Ottanta videro l’introduzione di regole atte a evitare l’eccessiva concentrazione di potere nelle mani di un solo leader e scongiurare il ripetersi di fenomeni di disordine che avevano caratterizzato gli anni precedenti. Il fine era quello di promuovere una gestione collettiva, nella quale il segretario generale del Pcc e presidente della Rpc rappresentasse solo un primus inter pares.

Da quando Xi ha preso in mano le redini del paese, però, si è assistito a un progressivo accentramento di potere nelle sue mani. Tra tutte, la riforma istituzionale destinata a lasciare il segno più profondo è stata la cancellazione, nel 2018, del limite di due mandati presidenziali previsti dalla Costituzione. Con l’abolizione del vincolo costituzionale, Xi Jinping ha la strada spianata per occupare la posizione apicale assoluta all’interno del partito e dello stato ben oltre i dieci anni dei suoi due predecessori.

Questa ipotesi è stata corroborata dal fatto che al termine del XIX Congresso del Pcc nel 2017 non è stato designato alcun successore e che il XIV programma quinquennale (2021-2025) fa riferimento a obiettivi da raggiungere entro il 2035, suggerendo una potenziale continuità della leadership di Xi nel prossimo decennio.

(AP)

Un prodotto del partito

La dura Campagna contro la corruzione condotta sin dal 2012 identificata come una lotta di potere interna al partito e l’abolizione del limite dei due mandati presidenziali (che era stato introdotto nel clima post-rivoluzione culturale) hanno indotto analisti e media esteri a ritenere che Xi rappresenti un “nuovo Mao” e persino che quello in atto sia un ritorno al periodo di radicalizzazione maoista.

A un’analisi più attenta, però, si evince come questa visione ometta le differenze sostanziali tra la relazione di Xi Jinping e il partito, e quella che vigeva tra il Grande timoniere e l’organizzazione: come osserva Kerry Brown, Mao esercitava un’autorità che era indipendente dal partito; Xi, invece, è un prodotto del partito e la sua figura non ha valore se non come parte dell’organizzazione. Osservando il modo in cui, ad esempio, la lotta alla corruzione è stata condotta, si evince che, per quanto sistematica e con estrema determinazione, essa è stata portata avanti in modo ordinato, senza mobilitare le masse a “scagliarsi contro il quartier generale”, come invece aveva incitato a fare Mao.

D’altra parte, l’accentramento del potere di Xi Jinping sembra far abortire un dibattito che aveva conosciuto un periodo d’oro durante il decennio di Hu Jintao e Wen Jiabao.

In particolare, quest’ultimo, in una serie di occasioni aveva espresso la necessità di condurre una “riforma del sistema politico” (zhengzhi tizhi gaige), senza la quale il progetto di modernizzazione sarebbe stato irrealizzabile. Sebbene le parole di Wen non siano da intendere come una volontà di trasformare il sistema politico cinese in una democrazia liberale, esse nondimeno appaiono significative in quanto richiamano a un dibattito che risale agli anni Ottanta.

Anziché portare avanti il dibattito sulla “riforma del sistema politico”, locuzione che è scomparsa sotto Xi Jinping, la strategia proposta dall’attuale dirigenza è quella della svolta autoritaria caratterizzata da un forte accentramento del potere nelle mani del “leader del popolo”, strategia che è stata riassunta in un eufemismo: “modernizzare il sistema e le capacità di governance nazionale”.


Beatrice Gallelli è autrice di La Cina di oggi in otto parole (il Mulino)

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