Il giornalista della National Review Michael Brendan Dougherty ha scritto lo scorso giugno che la guerra in Ucraina ha sui progressisti americani lo stesso appeal che ai tempi aveva la guerra di Spagna. Una presa di posizione un po’ forte, che forse non tiene in considerazione le ali più radicali. Ci rivela però che un pezzo di mondo conservatore sia sempre più scettico sulle sorti dell’Ucraina riguardo alla sua lotta contro l’invasione russa. Non solo: probabilmente c’è qualcosa di più del mero disincanto.

C’è un cambio di passo. Lo ha rilevato un sondaggio della Cnn dello scorso 4 agosto riguardo proprio all’Ucraina: il 51 per cento degli americani credono si sia fatto abbastanza per Kiev, mentre il 45 per cento pensa si debba fare di più. Ad aver portato a questo forte abbassamento è stato, com’è ovvio, il partito repubblicano. Se si analizza meglio la già citata rilevazione, si nota come quella parte che pensa di fornire maggior supporto all’esercito ucraino sia composta da un 62 per cento di democratici, un 44 per cento di indipendenti e soltanto un 28 per cento di repubblicani. Vedendo il dato diviso per fasce d’età, soltanto una maggioranza degli over 65, il 58 per cento è concorde nel sostegno continuato all’Ucraina contro la Russia, un dato che si spiega anche con il ricordo vivo degli anni della presidenza di Ronald Reagan e della Guerra Fredda, mentre la parte del campione intervistato compresa tra i 35 e i 64 anni è quella più favorevole a cessare il flusso di aiuti. Nemmeno i più giovani under 35, dove il sostegno a Kiev si attesta sul 46 per cento, riescono però a essere in maggioranza pro-Ucraina. Questo ha delle conseguenze immediate: per l’amministrazione di Joe Biden è molto più difficile approvare nuovi pacchetti di sostegno inseriti nel budget generale, anche perché ormai la percentuale repubblicana di chi crede che Biden mandi le armi con il contagocce è ridotta a uno striminzito 14 per cento.

Fine dell’accordo

Anche per questo la Casa Bianca, d’accordo con la leadership di Mitch McConnell al Senato, aveva pensato a una via parallela di finanziamento per l’Ucraina, che prescindesse dal budget faticosamente concordato a cavallo tra maggio e giugno dopo settimane di trattative. Lo speaker della Camera Kevin McCarthy ha rifiutato con decisione. Non solo: 70 membri dell’ala destra repubblicana, guidati dal trumpiano di stretta osservanza Matt Gaetz, hanno votato per una cessazione immediata del sostegno. Un segno che qualsiasi nuovo patto bipartisan dopo la deadline di fine settembre, sarà difficilmente ottenuto. Fino ad oggi l’amministrazione Biden aveva contato sulla leadership repubblicana e sulla sua tradizionale visione neoconservatrice su un forte ruolo americano nel mondo, ma quel partito ormai non esiste più. Non solo quello reaganiano ma anche quello dell’epoca di George W. Bush.

Oggi un deputato repubblicano che vota a favore dell’Ucraina rischia di vedersi sfidato alle primarie da un trumpiano di ferro e quindi probabile che sia poco propenso a prendersi il rischio, anche se basta una decina di deputati per salvare i piani del presidente, che prevedono di continuare a stare dalla parte di Kiev fino al 2024 compreso. L’elefante metaforico nella stanza è ovviamente l’ex presidente Trump: è soprattutto grazie a lui che i repubblicani oggi sono il partito dell’America First che prima dell’invasione russa non nascondeva nemmeno una certa ammirazione per Putin, visto come un “vincente” che difende i valori cristiani. Lo si è visto anche di recente in Iowa a un dibattito ospitato da Tucker Carlson: i candidati repubblicani alle primarie presidenziali del 2024 che sono più favorevoli a sostenere Kiev hanno numeri penosi nei sondaggi, con l’esclusione forse di Mike Pence. L’ex vicepresidente di Donald Trump ha saputo scavarsi una particolare nicchia di conservatorismo tradizionale che su temi come i diritti riproduttivi e Lgbtq+ è decisamente estrema, ma che sulla politica estera si distacca dal trumpismo. In ogni caso troppo poco per un trend che, come ha detto l’ex deputato Adam Kinzinger alla Cnn, ha cancellato il partito repubblicano per come lo si conosce. C’è da dire però che l’ex presidente Donald Trump, al di là delle sparate più altisonanti, come quella relativa alla guerra da far finire “in 24 ore” con un taglio netto degli aiuti militari, ha colto nel segno due debolezze della strategia del suo successore: finora gli Stati Uniti hanno fornito oltre 37 miliardi di dollari in armi. Dopo di loro c’è il Regno Unito con 5 miliardi e 700 milioni e la Germania con 3 miliardi e 900 milioni. Una disparità che mostra che ancora una volta i partner europei cercano di contare soprattutto sulla generosità di Washington, un vecchio argomento di Donald Trump che spiega anche la sua crescente ostilità nei confronti della Nato, vista come un ferrovecchio.

In secondo luogo, il suo esplicito rifiuto di “tifare” per una vittoria ucraina, anche se si spiega con quanto già detto in precedenza su Putin, afferma quasi un’ovvietà. Appare probabile, anche se le parti appaiono lontane come non mai, che prima o poi si riaprirà un canale di trattativa concreto, favorito anche dall’azione diplomatica di terzi, come sembra dai colloqui di pace che si sono tenuti a inizio agosto a Gedda, in Arabia Saudita, tra i rappresentanti di quaranta Paesi, Russia esclusa. E un eventuale accordo, probabilmente, scontenterebbe il governo di Volodymyr Zelensky, che ormai quasi apertamente punta a un collasso statuale della Russia come stato unitario.

Una pace di scontento quindi, appare sempre più probabile, complice il mutato atteggiamento dei repubblicani, ormai sempre più lontani dalle tradizionali posizioni in politica estera.

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