Se esiste una liturgia delle democrazie rappresentative somiglia a quella che si è svolta a Roma. Davanti al Senato, sfilano mezzi coi vetri oscurati e l’adesivo della bandiera turca. Dentro palazzo Madama, sotto un tetto di affreschi, qualcuno arrivato dall’Asia con una enorme valigia cerca di infilarla tra gli scranni. L’occasione di tutte queste cerimonie è il P20, e cioè la costola parlamentare del G20: vista la presidenza di turno italiana, sono i presidenti delle due camere Elisabetta Casellati e Roberto Fico, con una rapida presenza inaugurale del premier Mario Draghi, ad accogliere nella capitale gli speaker of the house e i delegati arrivati da ogni continente. E allora ecco il Brasile, che aiuta l’Olanda, seduta dietro e mai stata così vicina, a scattarsi un selfie. La prima fila è per gli Stati Uniti, e la presenza più attesa è quella di Nancy Pelosi. Che ha un lungo scambio Mario Draghi, il quale interviene per un saluto, ascolta lei, e poi prima che il presidente dell’unione parlamentare, Duarte Pacheco, inizi a parlare è già filato via. Il summit dei presidenti delle camere, titolato “Parlamenti per le persone, il pianeta e la prosperità”, si ritrova per ricordare a sé e al mondo il ruolo degli eletti nelle crisi come quella climatica, pandemica, economica. E però c’è soprattutto una crisi che lo attraversa, ed è proprio quella dei parlamenti. Esautorati dalle decisioni, chiusi o persino presi d’assalto, gli avamposti della democrazia rappresentativa sono infragiliti anche in occidente. La pandemia non ha fatto che acuire gli squilibri.

Stato di crisi permanente

I più chiari segnali di svilimento dell’assemblea arrivano per paradosso proprio dal paese considerato la patria dei diritti, e cioè la Francia. Qui lo stato di eccezione è diventato la normalità, visto che ricorre ormai da oltre sei anni. Nel 2015, dopo gli attacchi terroristici a Parigi, l’allora presidente François Hollande ricorre a una legge concepita nel 1955 per «casi di pericolo imminente, attacchi gravi all’ordine pubblico e calamità» e dichiara l’”état d’urgence”, lo stato di urgenza. In quella cornice, l’esecutivo può limitare anche le libertà fondamentali e procedere a colpi di ordinanze, con un ruolo molto più marginale degli eletti. Ma la situazione peggiora persino, quando arriva la pandemia. Tra il 2015 e il 2020, la Francia ha già passato la metà del tempo in “stato di urgenza”. A fine marzo 2020, una nuova legge si ispira a quella del 1955 ma ne esaspera persino i tratti: se prima il parlamento doveva autorizzare il prolungamento dell’état d’urgence nel giro di un paio di settimane, con la pandemia dopo due mesi. La possibilità di intervento si riduce ulteriormente l’anno dopo: a febbraio 2021, la nuova “legge di urgenza sanitaria” estende il regime straordinario per quattro mesi.

Epidemia parlamentare

Nonostante gli sforzi del Senato per impedirlo, per un intero anno il governo ha potuto godere di un assegno in bianco e legiferare con “ordonnances”, ordinanze. Visto che il consiglio dei Ministri ha in programma di discutere il 13 ottobre l’ennesima legge che estende l’urgenza sanitaria, e che quindi l’emergenza è ormai la norma, Laurent Fabius chiede che perlomeno il consiglio costituzionale, da lui presieduto, possa prima fare un vaglio dei provvedimenti. Il caso francese è esemplare per la sistematicità, ma il problema è generale. L’Italia è tuttora in stato di emergenza, è cominciato a inizio 2020 e la proroga più recente è stata approvata a luglio e copre tutto il 2021. Garantisce all’esecutivo poteri straordinari, come poter operare in deroga alle disposizioni di legge in vigore e usare in modo eccezionale decreti del presidente del consiglio dei ministri (Dpcm) e ordinanze ministeriali, cosa che è stata fatta di frequente. Il Dpcm permette all’esecutivo interventi tempestivi ma comporta pure che la dialettica parlamentare venga aggirata. Già un anno fa, il rapporto “Democracy under lockdown” stilato da Freedom House rilevava che «i parlamenti sono stati tenuti in scacco da restrizioni e leggi di emergenza. Su 65 paesi, il quaranta per cento si è pure trovato con gli incontri per legiferare del tutto cancellati per almeno una fase della pandemia».

Pieni poteri e assalti inediti

La pandemia ha offerto l’occasione per radicalizzare tendenze già in atto. In Ungheria ad esempio con il Covid-19 il premier Viktor Orbán ha imposto lo stato d’emergenza per avocare a sé più poteri, ma già nel 2015 il governo ungherese dichiarò lo «stato di crisi per immigrazione di massa»; e quello stato di crisi è stato protratto anche quando la media di ingressi illegali giornalieri è diventata prossima allo zero. E che dire del Regno Unito? Qui la parola parlamento è ben nota dal tredicesimo secolo, eppure Boris Johnson ha provato a tenerlo chiuso. Due anni fa, per scansare lo scrutinio parlamentare del suo piano per l’uscita dall’Ue, il premier conservatore provò a sospendere l’assemblea per cinque settimane. La Corte suprema gli diede torto, la gente scese in strada per protesta. Ma le assemblee degli eletti ormai non sono al sicuro neppure coi presidenti a fine mandato, e Trump è l’esempio. Per quanto negli Usa il parlamento eserciti un ruolo di forte contrappeso rispetto alla Casa Bianca – lo si vede con Joe Biden costretto a ridimensionare i propri piani – la ferita dell’assalto a Capitol Hill, è ancora aperta.

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