Il XX congresso nazionale del Partito comunista cinese (Pcc) si chiude con l’elezione del comitato centrale che - recita lo statuto - «quando non è riunito il congresso, attua le sue risoluzioni e dirige tutto il lavoro del partito». Tuttavia le telecamere dei media sono già puntate sul tappeto rosso sul quale il giorno dopo sfileranno i nuovi membri del comitato permanente dell’ufficio politico, che saranno svelati da Xi Jinping. Scandirà in ordine gerarchico i loro nomi, seguiti dall’epiteto “compagno” (tóngzhì). Sì, perché è in questo organismo ristretto, in questo gruppo di uomini che vivono tutti nelle splendide, iper-protette dimore di Zhongnanhai, l’ex giardino imperiale accanto alla Città proibita, che si concentra il potere decisionale di un sistema nel quale la politica sovrasta l’economia e la società.

Le donne che - amava ripetere Mao - «sorreggono metà del cielo» non sono ancora riuscite a varcare la porta di quello che, di fatto, è il governo della Cina. Alla fine del 2021 il Pcc poteva contare su 28,4 milioni di tesserate (circa il 30 per cento degli iscritti), 30 delle quali hanno trovato posto nel XIX comitato centrale (meno di una ogni dieci seggi). La vice premier Sun Chunlan, è l’unica rappresentante del gentil sesso tra i 25 membri dell’ufficio politico uscente, la sesta a esservi entrata dal 1949. Non va meglio nelle 34 divisioni territoriali con status di provincia, dove la segretaria di partito del Guizhou, Shen Yiqin, è la sola eccezione in un mondo dominato da maschi. Maturare l’esperienza amministrativa necessaria per entrare nell’ufficio politico (“anticamera” obbligatoria per il suo comitato permanente) per una funzionaria è più difficile, perché per lei la pensione scatta a 55 anni, cinque prima che per i colleghi. E, salvo sorprese, anche il prossimo comitato permanente dell’ufficio politico apparirà nei suoi tradizionali, identici completi scuri dove l’unica differenza la fanno i colori delle cravatte: tra i papabili infatti non c’è nemmeno una donna.

Il “nucleo della leadership”

Il comitato permanente è una sorta di consiglio dei ministri. Al suo interno, il numero uno è il segretario generale del Pcc, mentre il numero due generalmente viene nominato premier della Repubblica popolare cinese (Rpc). Ad alcuni dei suoi membri possono essere assegnati anche dicasteri, ma i sette uomini che guidano il paese più popoloso del mondo ricoprono un grado più elevato rispetto al governo (il consiglio di stato). Istituito nel 1927, al comitato permanente dell’ufficio politico è stato attribuito un potere decisionale esclusivo nel 1992, quando Deng Xiaoping sciolse la commissione consultiva centrale, un organismo composto da ex leader del partito che aveva l’ultima parola sui provvedimenti da adottare. Nella storia della Rpc il numero dei suoi componenti è variato: da tre a undici, sempre dispari, perché in teoria le deliberazioni vengono prese a maggioranza. Il segretario generale è stato a lungo un primus inter pares. Tuttavia con Xi le cose sembrerebbero cambiate radicalmente, dal momento che il suo “Pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una Nuova era” è stato inscritto nello statuto del Pcc e nella costituzione della Rpc, che il segretario generale è stato messo a capo di diversi organismi dirigenti ristretti, che nel regolamento del partito Xi è stato designato come héxīn lĭngdăo, “nucleo della leadership”. Tutto ciò lascerebbe immaginare che la sua voce pesi molto di più di quelle degli altri top leader. Il condizionale è consigliato, perché nessuno se non gli stessi più alti papaveri del partito è al corrente delle loro segretissime discussioni. E delle riunioni (generalmente settimanali) del comitato permanente i media si limitano a riportare scarni resoconti ufficiali.

Cambiamento epocale

Sebbene la vita del partito sia governata da oltre 3.600 tra regolamenti e direttive, non esistono norme scritte che dettaglino i meccanismi di transizione da una leadership all’altra, ma soltanto consuetudini, che possono essere rafforzate come ignorate, a seconda dei rapporti di forza all’interno del vertice del Pcc.

Mentre ad esempio la costituzione dello stato (prima della riforma, voluta da Xi, del 2018) limitava a due i mandati del presidente della Rpc, lo statuto del partito non ne pone alcuno a quelli del segretario generale del Pcc. Riassunta nella formula qī shàng bā xià (sette dentro, otto fuori) la prassi in base alla quale si può essere promossi negli organismi apicali del partito e dello stato non oltre i 67 anni, mentre a 68 si viene pensionati, è stata infranta in alcuni casi (ad esempio nel 2018, per l’elezione alla vice presidenza della Rpc di Wang Qishan, quando quest’ultimo stava per compiere 70 anni) ma mai nell’ambito del comitato permanente. Nel quale però stavolta rimarrà il sessantanovenne Xi, che continuerà a presiederlo: questo privilegio sarà riservato anche ad altri? Nulla peraltro impedirebbe a Xi, qualora volesse favorire una maggiore collegialità in una fase complessa sia all’interno che nei rapporti internazionali della Cina, di allargare nuovamente, magari a nove membri, il comitato permanente.

Come che sia, è importante ricordare perché gli strappi alle consuetudini operati da Xi hanno un enorme valore politico e simbolico. La prassi del limite di 67 anni e quella dei due mandati sono nate dalle macerie del lungo (1949-1976) dominio esercitato fin dalla proclamazione della repubblica popolare da Mao che, ormai senescente, scatenò nel 1966 la Rivoluzione culturale anche contro i vertici del partito, ordinando di far “fuoco sul quartier generale”, ovvero sui suoi leader accusati di procedere troppo timorosi lungo la strada del socialismo, come “donne con i piedi fasciati”.

Con le consuetudini ispirate da Deng Xiaoping e affinate dal suo successore, Jiang Zemin, oltre a una leadership sine die, si era inteso scongiurare il ripetersi delle lotte intestine per la successione che accompagnarono il tramonto del “grande timoniere”, quando prima la Banda dei quattro guidata dalla moglie di Mao, Jiang Qing e, in seguito al sua arresto, Hua Guofeng, scalarono il vertice del partito in nome di un’autoproclamata continuità con il maoismo, prolungando l’instabilità nel paese. Soltanto nel 1981, con la Risoluzione su alcune questioni della storia del nostro partito dalla fondazione della Repubblica popolare cinese approvata il 27 giugno dal VI plenum dell’XI comitato centrale, il “piccolo timoniere” consolidò il suo comando e poté intraprendere quella istituzionalizzazione della successione delle leadership che – assieme alla sua capacità di adattamento ideologico – ha svolto un ruolo strategico nel mantenimento al potere del Pcc, avendo contribuito alla coesione e alla stabilità delle sue élite, rafforzando la sua legittimità.

Alle radici della svolta

È naturale a questo punto chiedersi perché il partito abbia abbandonato meccanismi che avevano ben funzionato. La biografia del figlio di Xi Zhongxun (compagno d’armi di Mao perseguitato alla vigilia e durante la Rivoluzione culturale), la sua personalità forgiata da sofferenze e privazioni adolescenziali, la sua ambizione personale e il convincimento di essere investito della missione di guidare il “grandioso risveglio della nazione cinese” rappresentano una parte della risposta.

I provvedimenti che i media occidentali hanno presentato come frutto di un esasperato zelo accentratore di Xi originano anche da una scelta strategica della V generazione di leader, che si è trovata a navigare in circostanze nuove, quanto mai insidiose. Nella sua relazione al XVIII congresso nazionale, già Hu Jintao aveva enfatizzato la necessità di «applicare rigorosamente la disciplina di partito e sostenere con obbedienza la leadership centralizzata del partito», e di «combattere senza sosta la corruzione e conservare il carattere politico di integrità dei comunisti».

Da un lato, all’interno del paese, il monopolio del potere da parte del Pcc viene minacciato dalla nuova “contraddizione principale” (zhŭyào máodùn), identificata da Xi come quella tra «uno sviluppo squilibrato e inadeguato e il bisogno crescente di una vita migliore da parte della popolazione». Dall’altro incalza la crescente rivalità con gli Stati Uniti, alla quale i leader cinesi hanno guardato con preoccupazione crescente già a partire dal secondo mandato di Obama. A questa duplice sfida il Pcc ha risposto con l’accentramento di potere nella leadership e l’intransigenza.

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