Poco più di un mese di conflitto a Gaza è bastato per aggiungere un lungo capitolo al già vasto tema del ruolo del giornalismo in tempo di guerra. Gli episodi o alcune volte le polemiche che hanno interessato i reporter sul campo sono stati diversi.

I testimoni degli attacchi di Hamas

L’ultimo, e che richiama forse più di tutti lo storico dilemma etico per chi fa questo mestiere, quello del cercare la notizia a tutti i costi, è quello dei fotoreporter palestinesi che hanno documentato in diretta gli attacchi di Hamas del 7 ottobre nei kibbutz israeliani. I quattro giornalisti sono stati accusati di essere di fatto ‘embeddati’ con i miliziani, dopo che il sito pro Israele HonestReporting ha portato alla luce la loro presenza negli scenari dei crimini commessi dai terroristi in quelle ore.

I quattro, infatti, hanno fotografato - per media come Associated Press, Cnn, Reuters o New York Times - i momenti degli attacchi ai tank israeliani o dei linciaggi di civili e dei soldati di Tel Aviv, scatenando molti dubbi sul fatto che fossero già a conoscenza dei propositi di Hamas. Perché, per il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz, nel caso dovrebbero «essere trattati come terroristi», o addirittura, per il membro della Knesset Danny Danon, «eliminati».

In particolare, è spuntata una foto recente di uno di questi freelance, Hassan Eslaiah, insieme al leader di Hamas a Gaza Yahya Sinwar. I media occidentali hanno allontanato l’ipotesi di aver mandato giornalisti al seguito dei guerriglieri di Hamas, smentendo alcune ricostruzioni di HonestReporting. Ma intanto, nel caso di Eslaiah, la Cnn si è affrettata a sospendere «ogni legame con lui».

Notizie e giornalismo guidato

Rimane il problema per i media di riuscire a ricavare fonti e notizie da uno scenario di guerra come la striscia di Gaza, dove i giornalisti internazionali non possono di fatto entrare. Per questo si affidano a figure già sul posto, con tutti i rischi di un loro coinvolgimento più o meno diretto con il fronte palestinese.

Da una parte e dall’altra i giornalisti sono poi usati come megafoni per sensibilizzare le opinioni pubbliche. Come successo in Ucraina, dove l’eccidio di Bucha è stato mostrato alle telecamere internazionali dai soldati di Kiev, l’esercito israeliano ha portato direttamente a vedere gli orrori perpetrati da Hamas nei kibbutz, con la vicenda della notizia dei bambini forse sgozzati, ma sicuramente uccisi, a Kfar Aza. In sporadici casi, le Israel defence forces hanno iniziato a portarsi dietro alcuni giornalisti durante le operazioni via terra a Gaza, tuttavia per farlo hanno imposto una censura e un filtro pesante sulle pubblicazioni di fotografi e reporter.

Altro episodio simbolo del ruolo e dei problemi dell’informazione nel conflitto è stata l’esplosione all’ospedale di Gaza Al-Ahli, in cui inizialmente i media hanno puntato il dito verso Israele, per poi correggere il tiro. Una vicenda che oltre a costringere alle scuse il gotha del giornalismo occidentale, dal New York Times alla Bbc, ha acceso i riflettori sui rischi di una informazione istantanea e senza dovuti filtri. Anche perché il modo in cui è stata diffusa subito la notizia ha rischiato di far deflagrare il caos nel mondo arabo e l’allargamento della guerra.

I giornalisti uccisi

Intanto, il bollettino dei giornalisti e degli operatori dei media uccisi dal 7 ottobre, in particolare a Gaza, è salito a 40, secondo il Committee to Protect Journalism (Cpj) un’organizzazione indipendente con sede a New York. Tra questi anche il reporter di Reuters ucciso al confine tra Israele e Libano da un raid israeliano il 13 ottobre, dove sono stati feriti anche degli inviati di Al Jazeera. Per Reporter senza frontiere è stato un attacco deliberato, visto che i giornalisti erano localizzabili e avevano preso ogni precauzione.

Se fosse servita una conferma, anche nel caso di Gaza, chi prova a fare luce sul presente è preso di mira o influenzato, eppure, nonostante tutto, c’è chi rimane sul campo. O purtroppo sotto terra.

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