Una condanna che è arrivata relativamente sottotono, quella ricevuta dall’ex presidente americano Donald Trump per aver molestato la giornalista Elizabeth Jean Carroll negli anni ’90 all’interno di un centro commerciale newyorchese. La causa non ha risvolti penali, ma soltanto civili, quindi la pena è soltanto pecuniaria: cinque milioni di dollari di risarcimento per averla molestata.

Sappiamo bene che nel caso di Trump gli scandali non lo indeboliscono, anzi, lo rafforzano. Nel suo caso però le vicende giudiziarie in corso sono diverse e non tutte di natura politica. Ovviamente il processo più famoso è quello in corso sempre a Manhattan, sotto la guida del procuratore distrettuale Alvin Bragg, che lo accusa di aver orchestrato una cospirazione criminale per il pagamento di 130mila dollari alla pornostar Stormy Daniels, tramite quello che allora era il suo avvocato Michael Cohen. Curiosamente Cohen è coinvolto anche in un caso dove Trump è nell’inconsueto ruolo di parte lesa: l’ex presidente accusa il suo legale di aver rotto il patto di fiducia dopo aver rivelato il suo ruolo nell’affaire Daniels in interviste, libri e podcast e chiede la cifra monstre di 500 milioni di dollari in risarcimento.

Difficile vengano ottenuti. Più facile, invece, è che il fantasma dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio provveda una nuova incriminazione per l’ex presidente, stavolta per sedizione e incitamento all’insurrezione armata, legato al discorso da lui tenuto la mattina stessa e alle azioni intraprese nei mesi precedenti per ribaltare il risultato delle elezioni. Qui la palla è in mano al procuratore speciale Jack Smith, che deve decidere quando e come emettere eventuali incriminazioni, che peraltro sono già state chieste dalla commissione congressuale dedicata proprio agli eventi di Capitol Hill, commissione che però è stata sciolta con l’avvento della nuova maggioranza repubblicana alla Camera. Smith, già procuratore generale durante la presidenza di Trump con fama di “duro” in casi di corruzione di politici di alto livello, deve anche gestire il caso riguardante i documenti riservati che Trump avrebbe, per colpa o per dolo, nascosto nella sua residenza di Mar-a-Lago.

Del resto, Trump ha un cattivo rapporto con i documenti riservati almeno dal 1973: sin da allora Trump o la sua organizzazione avrebbero sistematicamente distrutto documenti ufficiali sui suoi affari o missive provenienti da tribunali e avvocati.

La testata online Axios ha pubblicato lo scorso agosto la foto dell’ex presidente che getta nel water i pezzetti di alcuni documenti non meglio precisati. Un caso invece che esula sia dalle competenze del dipartimento di giustizia che dalla sua città natale New York è quello che riguarda le indebite pressioni fatte nei confronti del segretario di stato della Georgia Brad Raffensperger: quest’ultimo, repubblicano, ha ricevuto pressioni telefoniche per trovare “circa diecimila voti” per vincere lo stato.

Un’attitudine al cosiddetto qui pro quo che già è costata a Trump il primo processo di impeachment nel settembre 2019, quando si venne a sapere della sua richiesta al neoeletto presidente ucraino Volodymyr Zelensky di indagare sugli affari privati di Hunter Biden a Kiev in cambio di un robusto pacchetto di aiuti militari. Anche qui ci sono prove audio che si trovano facilmente su Internet ma dato che il processo si dovrà tenere in Georgia con una giuria estratta a sorte, ci si chiede se il verdetto non possa risultare in un’assoluzione o in un invalidamento generico delle accuse, da cui il presidente, si capisce, ne uscirebbe rafforzato. Se nei confronti dell’elettorato queste accuse lo rafforzano, alcuni senatori repubblicani come il texano John Cornyn e John Thune del South Dakota hanno affermato che un candidato con questi scandali difficilmente può vincere la presidenza. Un problema che si acuirebbe durante i dibattiti, dove il presidente Biden potrebbe accusarlo di essere un molestatore sessuale con tanto di carte a supporto della sua affermazione.

Fatti alternativi

Ad ogni modo i repubblicani si trovano di fronte a un dilemma che coinvolge proprio l’essenza profonda del carattere di Trump: nonostante la presenza di una fotografia, l’ex presidente nega di conoscere la sua accusatrice, anzi, l’ha scambiata per la sua seconda moglie Marla Maples. Per lui quindi si è creata una nuova immagine da vittima sacrificale.

Difficilmente farà marcia indietro, così come accaduto nei confronti della teoria cospirazionista delle elezioni “rubate” dai democratici o in altri casi più frivoli. Il riferimento è all’inaugurazione presidenziale del 20 gennaio 2017: le numerose foto scattate dall’alto che raffiguravano una spianata del Campidoglio piena soltanto per metà.

Allora sia la sua consulente Kellyanne Conway, che coniò la bizzarra espressione circa l’esistenza di «fatti alternativi», sia il portavoce della Casa Bianca Sean Spicer difesero l’affermazione del presidente che sosteneva che la sua cerimonia era stata «la più partecipata di sempre». Contro ogni evidenza. Una bizzarria che potrebbe segnare il destino dei repubblicani alle prossime presidenziali, data l’assenza di alternative a Trump. Segno che le sue vicende giudiziarie rafforzano la sua narrazione di “martire del Deep State” e di “combattente contro l’élite globalista”.
 

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