Sarà sempre più difficile tornare indietro: a cominciare dall’uscita dagli Accordi di Parigi, la furia anti-ambientale del nuovo presidente è destinata a cambiare in modo irreversibile la lotta globale ai cambiamenti climatici. Così Pechino non solo controllerà le filiere tecnologiche della transizione ma si troverà anche senza rivali del suo peso nella diplomazia ambientale
Dopo il giuramento, Trump si è abbattuto con uno tsunami di ordini esecutivi sul clima e l'ambiente, provando ad abbattere qualunque progresso fatto negli ultimi quattro anni. Non tutti gli ordini esecutivi avranno successo, perché la transizione Usa è troppo poderosa per fermarla per decreto, ma la furia anti-ambientale del nuovo presidente è stata comunque impressionante ed è destinata a cambiare in modo irreversibile la lotta globale ai cambiamenti climatici.
La mossa più vistosa era anche la più attesa: Trump ha ritirato gli Stati Uniti dall'accordo di Parigi. Servirà un anno per completare l’iter, non quattro come la prima volta (sempre con Trump, ovviamente). Nel 2017 l'accordo doveva ancora entrare pienamente in vigore e i tempi tecnici erano più lunghi: la fuoriuscita durò pochi mesi, poi vinse Biden e tornò tutto come prima. A gennaio 2026 gli Usa invece non saranno più nell'accordo di Parigi e faranno parte di un club ristretto di quattro paria del clima, che include due stati falliti (Yemen e Libia) e un nemico come l'Iran.
Nessun obbligo
Gli Stati Uniti parteciperanno alle Cop (coperte dalla convenzione di Rio del 1992, dalla quale uscire è più complesso), ma senza obblighi multilaterali e senza voce in capitolo. Il segretario dell'agenzia Onu sul clima Simon Stiell ha fatto sapere: «Le porte rimarranno aperte, speriamo in un impegno costruttivo da tutti i paesi», una formula tra il diplomatico e il rassegnato. Più interessante il commento arrivato dal ministero degli esteri della Cina: «Il cambiamento climatico è una sfida comune di tutta l'umanità e nessun paese può cavarsela o risolverlo da solo. La Cina continuerà a supportare l'accordo di Parigi».
Senza Usa, la diarchia climatica degli ultimi anni viene ridotta a un quasi-monopolio politico della Cina, che controllerà non solo le filiere tecnologiche della transizione ma si troverà anche senza rivali del suo peso nella diplomazia climatica. La lotta al riscaldamento globale sarà sempre di più cucita su misura delle ambizioni cinesi.
Trump si è poi scagliato contro la transizione degli Stati Uniti, prendendo di mira un immaginario Green New Deal, contenitore retorico che nel suo linguaggio si riferisce a una vecchia proposta delle primarie 2019 nella quale quale oggi lui inserisce le politiche climatiche ed energetiche dell'era Biden. Sono queste le scelte più pregne di conseguenze immediate, contenute in un ordine esecutivo di lunghezza fluviale che inizia così: «L'America è benedetta da un'abbondanza di energia e risorse naturali che hanno storicamente alimentato la prosperità della Nazione. Negli anni recenti regole ideologiche e oppressive ne hanno impedito lo sviluppo, hanno limitato la produzione di elettricità affidabile e a buon mercato, hanno ridotto i posti di lavoro e causato alti costi energetici ai cittadini».
Due le decisioni chiave. La prima è «incoraggiare esplorazione e produzione su suolo e acque federali», con un riferimento implicito agli idrocarburi e in particolare al petrolio: un quarto di quello statunitense è in aree di proprietà federale, sulle quali Biden aveva imposto una moratoria. Nonostante ciò, la produzione fossile degli Stati Uniti aveva raggiunto livelli mai visti durante la scorsa presidenza. Il secondo è l'eliminazione del «mandato» per i veicoli elettrici, cioè le regole sulle emissioni dei veicoli a motore, per «promuovere una autentica scelta per il consumatore» ed eliminare «distorsioni di mercato a favore delle auto elettriche». Con un altro ordine esecutivo ha cancellato i programmi di giustizia ambientale. Trump intende infine dichiarare l'emergenza energetica, per allentare ancora di più limiti e regolamenti.
Transizioni contraddittorie
Cosa significhi questo per la transizione del secondo paese al mondo per emissioni è difficile dirlo ora. Ci saranno conseguenze pratiche e politiche. Gli investimenti dell'era Biden avevano favorito lo sviluppo delle rinnovabili, anche negli stati repubblicani. La produzione era cresciuta del 9,6% nel 2024. Il problema è che le emissioni sono calate pochissimo, solo dello 0,2%, perché i consumi di energia non hanno fatto che crescere.
La transizione prima del Trump II era stata contraddittoria come ogni transizione: dal 2005 le emissioni sono calate del 20%, ma per raggiungere gli obiettivi climatici sarebbero dovute calare dieci volte di più. Trump ha risolto il problema alla radice cancellando gli obiettivi climatici.
All'indomani della sua inaugurazione, una coalizione di governatori che rappresenta il 60% dell'economia ha fatto sapere che per loro l'accordo di Parigi rimane valido e che continueranno a decarbonizzare. C'è da credergli, anche perché per la prima economia al mondo è difficile rinunciare a una torta che arriverà a valere duemila miliardi di dollari nel prossimo decennio. Da un lato c'è lo tsunami Trump, dall'altro c'è la forza della realtà, climatica ed energetica. Lo ha spiegato bene Alexandra Scott, esperta di diplomazia del clima per il centro studi Ecco: «Rispetto al primo Trump, ci sono due differenze. La prima è che la scala della devastazione rispetto a otto anni fa, come dimostrato incendi a Los Angeles. La seconda è la scala dell'opportunità economica rappresentata dalla transizione».
Insomma, le mosse di Trump sono un doppio tentativo di autolesionismo, industriale e ambientale.
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