In Siria tutti sanno cos’è al Hol, in arabo la palude. Si tratta del più grande campo di rifugiati controllato dai combattenti curdi della Syrian Democratic Forces (Sdf). Al Hol era stato creato per i rifugiati iracheni della guerra del Golfo del 1990. Oggi vi vivono ammassate circa 80mila persone, in maggioranza donne e bambini. Siriane, irachene ma anche di nazionalità le più diverse (se ne contano 52), inclusi numerosi occidentali. Sono i resti dell’Isis sconfitto. Per questo al Hol è anche un campo di prigionia: vi sono sottocampi da cui non si può uscire: vi sono confinate le “madri della jihad” con i figli, i leoncini di al Baghdadi, come venivano chiamati.

Le donne

Molte donne sono ancora fanatizzate e per passare tra le tende occorre la scorta armata. Se in visita ci sono degli occidentali, nemmeno la scorta basta: è facile che una gragnuola di pietre investa chi ci prova. Lo scorso settembre è stato complicato per il nostro Ros far uscire dal sottocampo l’italiana Alice Brignoli e riportarla a casa per farla giudicare. Lei era felicissima ma è uscita di soppiatto da sola in un secondo momento, perché i carabinieri non erano potuti entrare nella tendopoli.

Non si sa cosa accade davvero nella parte off limits di al Hol. Nelle ultime settimane ci sono state 12 vittime, assassinate senza testimoni. Le Nazioni Unite hanno lanciato l’allarme: pare che all’interno del campo vi siano faide sanguinarie tra varie fazioni dell’Isis redivivo, ancora pronte ad uccidere. I curdi sono sopraffatti dall’alto numero di profughi e prigionieri, mancano di mezzi e uomini per il tutela della sicurezza e scarseggiamo di cibo e aiuti umanitari.

Sono mesi che le autorità delle Sdf insistono con la comunità internazionale, e in particolare con i paesi di origine delle donne prigioniere, perché ognuno si riprenda i propri concittadini. Ma nessuno vuole farlo: alcuni paesi come l’Iraq hanno già troppi casi da giudicare e campi simili; gli altri stati non ne vogliono sapere di far rientrare fanatici ritenuti pericolosi. Ciò vale anche per donne e bambini: tutti temono i “mostri” jihadisti. Soltanto dopo molteplici insistenze dell’opinione pubblica e degli avvocati, la Francia ha accettato qualche rientro ma col contagocce. Per la maggior parte si fa finta di niente. Così al Hol è divenuto sinonimo di universo sospeso, dove languono scarti di un’umanità perduta negli inferi di una guerra che non vuole finire.

I minori

Nemmeno i bambini commuovono più: l’Onu ha chiesto recentemente almeno il rimpatrio per i 27mila minori che si stimano vivere nel campo ma la comunità internazionale resta fredda. L’appello è risalito fino al Consiglio di sicurezza, senza esito. Soltanto Russia e Kazakhistan hanno accettato il rientro di circa 1.000 bambini, quasi tutti ceceni. L’obiettivo delle agenzie umanitarie sarebbe di reintegrarli nelle comunità di origine. Eppure c’è molta resistenza: quei piccoli fanno paura anche ai parenti. Un terribile stigma marchia tutti coloro che hanno avuto a che fare con l’Isis, non importa in quale ruolo né a che età. Per i siriani e iracheni l’Onu chiede almeno il rilascio di documenti di identità ma le autorità accampano scuse: né Damasco né Baghdad intendono dialogare con le autorità curde del Rojava, che non riconoscono. Quindi al limbo del campo di al Hol si aggiunge quello dell’area curda: un mondo sospeso dentro un paese fantasma.

Per reagire a chi li accusa di lassismo, i responsabili di al Hol candidamente ammettono che all’interno del campo si è ricreato un microcosmo stile Isis, con polizia, tribunali e condanne. Si fa trasparire anche la preoccupazione per il proseguirsi dell’offensiva turca: la tensione dentro al Hol è cresciuta quando l’esercito di Ankara ha preso le cittadine di Ras al Ayn e Tall Abiad nel nordest. L’effetto di tale avvicinamento è stata una ripresa della radicalizzazione, forse con la speranza di essere liberati.

Finché continua la guerra attorno a Idlib, anche per al Hol non ci sarà tregua. Alcune cellule più pericolose, composte da qualcuno dei rari uomini presenti, sono state smantellate e qualche arresto è stato fatto ma non basta per un sito grande quanto una media città. «Le mogli degli ex capi dell’Isis dettano legge tra le tende» dichiarano i guardiani. La situazione si sta deteriorando ed è noto che armi entrano nel campo. Visti i recenti attacchi avvenuti più a sud in Siria così come in Iraq (a dimostrazione che lo Stato Islamico non è del tutto morto) si vocifera che l’Isis stia addirittura tentando di trasformare al Hol in una delle sue province. Gli assassinii sono ricorrenti in particolare nelle sezioni 3, 4 e 5 del campo dove dal 2019 si contano oltre 82 persone uccise.

Numerose le donne detenute che raccontano un’altra versione: oggi si rifiutano di collaborare solo perché non hanno ancora ricevuto ufficialmente risposta su quale fine abbiano fatto i propri congiunti maschi. Molte credono che siano ancora vivi e detenuti illegalmente. Altre sostengono di essere state costrette ad entrare nel campo perché trovate nelle zone Isis anche se non avevano nulla a che fare con l’organizzazione terroristica. Altre ancora denunciano di essere state rapite e costrette ad aderire. Pochi sono disposti a credere a tali storie e le agenzie umanitarie stentano ad ottenere risposte dai rispettivi paesi. Inoltre quasi nessuno possiede ancora i documenti del passato ma solo quelli rilasciati dallo Stato islamico che nessun paese accredita.

Per lo più sono storie di ragazze che si sono lasciate abbagliare dall’incubo terrorista presentato loro come il sogno di una famiglia eroica e combattente. Più spesso sono storie di donne trascinate fino in Siria da mariti/fratelli/padri incoscienti e fanatizzati.

Oggi la vita ad al Hol è senza speranza perché non c’è chi si occupi del futuro di queste donne. Rientrare nei propri villaggi significa dover affrontare l’odio dei compaesani superstiti che imputano loro tutte le distruzioni e le morti. La guerra di Siria continua anche così.

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