Il mio vecchio capo Ronald Reagan amava dire che non aveva lasciato il Partito democratico, era stato il Partito a lasciarlo. È lo stesso per me con il Partito repubblicano. L’unica domanda è se siano rimasti abbastanza conservatori di principio per resuscitare un partito che è diventato, almeno per il momento, un culto della personalità.

Rimane da vedere come Joe Biden governerà da presidente, ma dalle sue prime scelte di gabinetto i segnali sono chiari: non ci saranno improvvise virate a sinistra.

A ogni modo, un Partito repubblicano di centro-destra, rivitalizzato e che possa fare appello a un ampio elettorato, è la migliore garanzia affinché gli Stati Uniti mantengano una forte difesa nazionale e un’economia vivace e di libero mercato. E che le libertà e i diritti individuali, non di un gruppo, rimangano al centro della nostra identità nazionale.

Se il Partito repubblicano possa ancora svolgere questo ruolo dipende da molte cose, non ultimo da come risponderà ai cambiamenti demografici del paese.

Gli elettori repubblicani sono prevalentemente bianchi e anziani, è più facile che siano maschi, con minor probabilità che abbiano fatto il college o abbiano una laurea rispetto agli elettori democratici.

Sono aspetti che non promettono nulla di buono per il futuro del partito, in un paese che è sempre più diversificato e istruito.

Immigrati norvegesi

Donald Trump ha vinto le elezioni del 2016 in parte sfruttando l’ansia per come sarà l’America in futuro. Chi ne farà parte? I nuovi arrivati cambieranno forse l’America più di quanto lei possa cambiarli? Contribuiranno a un bene maggiore oppure prosciugheranno le già scarse risorse? Rozzamente Trump ha chiarito il suo pensiero: alcune persone – musulmani, messicani e chi proviene da quelli che considera «paesi di merda» – non fanno parte dell’America. Ha addirittura suggerito che «dovremmo avere più persone provenienti dalla Norvegia».

Sono pochi i norvegesi che oggi emigrano in America, ma un secolo fa erano tantissimi. Quegli immigrati norvegesi però erano molto più simili agli immigrati messicani, honduregni, salvadoregni e guatemaltechi di oggi, che non alle fantasie di Trump di professionisti del nord Europa.

Quasi un quarto di tutti i norvegesi in età lavorativa ha lasciato la propria patria tra il 1870 e il 1910, la maggior parte navigando verso l’America in cerca di opportunità.

All’annuncio della sua corsa presidenziale del 2016 Trump lamentava: «Quando il Messico manda la sua gente, non sta mandando i migliori». Non lo fece nemmeno la Norvegia nella grande migrazione tra la fine del diciannovesimo e l’inizio del ventesimo secolo, se i migranti devono essere giudicati solo in base alla ricchezza e alla classe.

Chi arrivava dalla Norvegia proveniva dagli strati meno qualificati del proprio paese; erano per lo più contadini, pescatori, braccianti comuni, secondo la professoressa di Economia a Princeton Leah Boustan, che ha studiato i dati del censimento della Norvegia e degli Stati Uniti di quel periodo.

Boustan ha detto a Npr che rispetto agli immigrati di altre 15 nazioni europee della stessa epoca: «I norvegesi facevano i lavori meno retribuiti negli Stati Uniti». Ci sono voluti decenni prima che gli immigrati norvegesi raggiungessero gli americani in termini di guadagno e istruzione, eppure ce l’hanno fatta.

Purtroppo Trump e gran parte della leadership repubblicana al Congresso sembrano non aver studiato questo pezzo di storia. Eppure il futuro del Partito repubblicano potrebbe essere determinato dal fatto che il partito comprenda le lezioni dell’immigrazione americana per ampliare i suoi ranghi oltre a una base sempre più ristretta.

Il voto degli ispanici e degli asiatici

Una delle grandi sorprese delle elezioni del 2020 è stata il maggiore sostegno di Trump tra gli elettori ispanici, specialmente in Florida e Texas. Nel 2016 circa il 28 per cento degli ispanici a livello nazionale ha votato per Trump, nonostante la sua retorica razzista e le proposte politiche xenofobe. Sebbene non siano ancora disponibili dati nazionali affidabili sugli elettori ispanici nel 2020, Trump ha chiaramente avuto performance migliori rispetto alle aspettative tra gli ispanici del sud della Florida e della valle del Rio Grande in Texas.

La campagna di Trump ha sollevato timori nel sud della Florida che una vittoria democratica avrebbe messo gli Stati Uniti sulla via del socialismo, un messaggio che ha risuonato tra gli elettori le cui famiglie erano fuggite dai regimi autoritari di sinistra in America Latina. In Texas invece la campagna di Trump ha utilizzato una tattica diversa, concentrandosi sull’economia, la legge, l’ordine e la religione.

In entrambi gli stati la chiave della strategia della campagna di Trump era di fare appello agli elettori ispanici non tanto basandosi sulla loro identità, ma sul fatto che fossero proprietari di piccole imprese e lavoratori, per i quali erano fondamentali fede e sicurezza nelle loro comunità.

La tattica non ha funzionato ovunque. I messicani americani in California, Nevada e Colorado hanno contribuito a mantenere gli stati blu in sicurezza; e in Arizona gli elettori ispanici sono stati un fattore importante nel convertire lo stato tradizionalmente repubblicano, non solo in favore di Biden, ma anche del candidato democratico al Senato Mark Kelly. Il New Mexico, dove ora gli ispanici costituiscono circa la metà della popolazione e fino alla metà del ventesimo secolo erano la maggioranza, ha votato a mani basse per Biden. In passato, il New Mexico aveva votato per i repubblicani in 12 delle 28 elezioni presidenziali da quando è diventato uno stato nel 1912 e ha eletto molti titolari di cariche repubblicane ispaniche.

Come gli ispanici, anche gli asiatici americani sono un gruppo eterogeneo, le cui diverse storie e i diversi paesi di origine fanno sì che trattarli come un tutt’uno non sia sempre utile. In media però gli asiatici americani sono più istruiti, guadagnano più di altri americani. Eppure gli exit poll del 2020 suggeriscono che solo il 31 per cento ha votato per Trump. Gli studi suggeriscono che molti elettori asiatici americani sono ben disposti verso il Partito repubblicano. Un sondaggio del 2014 mostra che il 39 per cento è favorevole ai repubblicani e l’altro 39 per cento no, con i coreani e i vietnamiti che mostrano le percentuali più alte di consenso e gli indiani e i cinesi le più basse.

La sfida del partito

Tutto ciò dimostra che il Partito repubblicano non ha perso il sostegno delle comunità di immigrati in modo definitivo, nonostante gli attacchi di Trump agli immigrati non europei. La sfida consiste nel ricostruire un partito che attragga gli elettori su valori condivisi come sulle politiche pubbliche; che incoraggi l’imprenditorialità ma anche manifesti compassione; che costruisca una forte difesa nazionale, ma sappia anche riconoscere che l’America non può andare da sola. E che si concentri su legge e ordine, ma riconosca che le leggi devono applicarsi allo stesso modo a tutti gli americani, indipendentemente dal colore o dall’origine nazionale; e ciò implica che le forze dell’ordine non abusino mai dei diritti o delle libertà civili.

Vorrei poter essere sicura che il Partito repubblicano sia all’altezza di questo compito. Il test sarà nelle prossime settimane, quando Biden entrerà in carica e i repubblicani al Congresso sceglieranno se lavorare con la nuova amministrazione o se combatterla a ogni turno.

Trump esercita ancora un’influenza enorme su milioni di elettori, convincendo molti che le elezioni gli sono state rubate. La maggior parte dei leader repubblicani eletti è rimasta in silenzio, temendo l’ira della base di Trump. Ma, a meno che non stiamo assistendo alla psicosi di massa, la maggior parte dei repubblicani supererà questa fase una volta che Trump lascerà lo studio ovale.

Il test sarà se i leader del partito sapranno dare forma a una visione del futuro che accolga gli immigrati e i loro figli, i giovani e gli anziani, i neri e i bianchi. L’ottimismo e non la paura che ha guidato gli ultimi quattro anni, può costruire un partito migliore. E un’America migliore. 

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