Il governo canadese ha già una pagina online per raccogliere la disponibilità di tutti quelli che si vogliono mettere a disposizione per accogliere i profughi afghani in fuga dopo il ritorno al potere dei talebani. Mentre si prepara a elezioni anticipate, annunciate in questi giorni, il premier Justin Trudeau annuncia che il Canada accoglierà 20.000 rifugiati.

Anche la Scozia guidata da Nicola Sturgeon, che si vuole mostrare portabandiera di ideali europeisti rinnegati dal resto della Gran Bretagna con la Brexit, promette accoglienza ad altri 20.000 rifugiati. Perfino la piccola e fragile Albania di Edi Rama, su richiesta degli Stati Uniti, ha accordato a fare la sua parte come “paese di transito” per gli afghani in fuga dai talebani e diretti in America. Dal governo italiano, con una dichiarazione del premier Draghi, al momento, arrivano impegni ancora vaghi “a proteggere i cittadini afghani che hanno collaborato con la nostra missione” e a “una soluzione della crisi, che tuteli i diritti umani, e in particolare quelli delle donne”.

Nel frattempo Twitter si riempie di video di persone che cercano disperatamente di lasciare l’aeroporto di Kabul aggrappate agli aerei in decollo, alcuna cadono nel vuoto, la pista è così affollata che gli aerei della missione tedesca non riescono ad atterrare, mentre i talebani cercano di riportare l’ordine che dalla loro prospettiva significa anche intrappolare tutti in un paese che vogliono governare come prima della guerra ventennale, a colpi di legge coranica, burqa per le donne, esecuzioni capitali e repressione di ogni dissenso. Difficile che chi oggi si aggrappa ai motori di un aereo, senza possibilità di sopravvivere fino all’atterraggio, sia disposto a rimanere in un paese abbandonato da quella parte della comunità internazionale che dal 2001 gli ha promesso democrazia e istituzioni.

Il grande esodo sta già cominciando: e l’Europa, a cominciare dall’Italia, ha l’obbligo morale di accogliere tutti. Perché il fallimento di quello che con un gergo ormai passato di moda si chiamava “state building”, la costruzione di uno stato là dove non c’era, è un fallimento condiviso. Degli Stati Uniti, certo, ma anche dell’Unione europea e dell’Italia nello specifico.

L’esodo ci sarà, come c’è già stato in altre crisi paragonabili: nel 2019 quello degli afghani era il terzo gruppo di rifugiati al mondo per entità, soprattutto i Turchia, Pakistan e Iran. Gli Stati Uniti, che hanno avuto un ruolo decisivo nel destabilizzare il paese anche prima del 2011 (quando i talebani erano utili alle strategie nella regione) tra il 1987 e i 2015 hanno concesso la ricollocazione su suolo americano soltanto a 16.400 rifugiati, mentre India e Pakistan ne accoglievano tre milioni, riferisce il Center for Migration Studies. Da gennaio 2021 alla caduta di Kabul, nota il sito Just Security, i rifugiati afghani ammessi negli Stati Uniti sono stati soltanto 460. Anche ora il programma che dovrebbe mettere in salvo gli afghani che hanno cooperato con i militari americani è farraginoso e con barriere enormi, denunciano gli avvocati che assistono chi fa domanda.

Nel 2020, secondo i dati dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, in Italia avevano ottenuto l’asilo 12.096 afghani, altri 1.339 hanno fatto richiesta. Ma ora i numeri rischiano di essere ben diversi: nonostante i ripetuti esodi, l’Afghanistan resta un grande paese, con oltre 38 milioni di persone, molti di quelli che potranno, tenteranno di fuggire.

Potranno l’Europa e l’Italia condannare il regime talebano, proclamare l’importanza dello stato di diritto e abbandonare al loro destino chi ha creduto a quelle promesse e ora si trova di nuovo ostaggio degli studenti coranici con il kalashnikov?

Lo abbiamo già fatto

C’è un precedente: nel 2015, di fronte a una crisi siriana nella quale l’Europa aveva responsabilità molto meno dirette, la cancelliera tedesca Angela Merkel annunciò la politica delle frontiere aperte, “Wir schaffen das”, “riusciremo a gestire la situazione”. Era l’estate di Alan Kurdi, bambino siriano di 3 anni finito cadavere sulle spiagge di Bodrum in Turchia, dopo i 600 morti in aprile a largo di Lampedusa, l’Isis era lontano dalla sconfitta (in novembre la strage del Bataclan, a Parigi), e i siriani fuggivano, stretti tra i tagliagole di Raqqa e le bombe del presidente Bashar Assad.

In Germania sono arrivati 890.000 siriani circa, molti senza documenti, la popolarità di Angela Merkel è crollata da oltre il 70 per cento al 40, l’estrema destra di Alternative fur Deutschland ha trovato facili consensi. Ma la Germania è sopravvissuta, molti di quei siriani – spesso con titoli di studio elevati – si sono integrati,  Merkel ha guadagnato una breve leadership morale sul tema immigrazione che ha usato, anche con cinismo, per fare accordi con la Turchia di Recep Tayyp Erdogan pagati da tutta l’Unione europea (per fermare le rotte via terra) e per negare all’Italia la redistribuzione degli arrivi via mare. Però intanto quegli 890.000 li ha accolti.

Oggi, di fronte a una crisi che si annuncia peggiore di tutte le altre in tema migratorio, l’Italia e l’Europa non hanno che una scelta: accogliere tutti quelli che riusciranno a fuggire, con i corridoi umanitari (strumento utile ma limitato nei numeri) e con ogni mezzo che la disperazione suggerirà loro.

E’ il minimo che possiamo fare. I modi e le forme si troveranno, oggi conta dare un messaggio di speranza a chi si è fidato per vent’anni di Stati Uniti, Nato, Onu e Unione europea. Oppure possiamo continuare a twittare il nostro sdegno, chiudere le frontiere e guardare morire chi aveva messo, suo malgrado, il proprio destino nelle mani dell’Occidente.

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