No, le cose non sono andate come in Les 155 jours de Marine Le Pen, il saggio fantapolitico di Blaise de Monluc che lo scorso autunno si era issato per qualche settimana negli scaffali dei best seller delle librerie. Il 21 giugno 2022 alle 12 Emmanuel Macron non è stato costretto a ricevere in pompa magna nel palazzo dell’Eliseo la leader del Rassemblement national per conferirle l’incarico di primo ministro.

Ma ciò non toglie che sia oggi la candidata sconfitta al ballottaggio dell’elezione presidenziale a guadagnarsi la maggior parte dei commenti mediatici all’esito delle legislative. Se immediatamente dopo lo choc dei risultati le prime pagine dei quotidiani e le aperture dei tg erano tutte per lo “schiaffo” subìto dal presidente, oggi è sulle cause e sulle conseguenze dell’inatteso exploit lepenista che si appuntano analisi e interviste.

La rivincita lepenista

L’interesse è ovviamente acuito dall’effetto-sorpresa. Nessuno aveva previsto gli 89 duelli vincenti (in realtà 91, in virtù degli apparentamenti) dei candidati “blu marine” sui 208 che gli esponenti del partito della fiamma tricolore erano riusciti a conquistare. Abituati a vedere drasticamente ridotte le chances dei lepenisti al secondo turno a causa del convergere simmetrico da destra e sinistra di un elettorato ostile, sollecitato ad aderire allo sbarramento del “fronte repubblicano”, versione transalpina dell’arco costituzionale di demitiana memoria, i sondaggisti non si erano spinti, nelle proiezioni più spericolate, oltre i 50 seggi acquisibili. I più ne pronosticavano 30-35. Ci si chiede, oggi, come ciò sia potuto accadere.

Colpe a sinistra

Le risposte più convincenti le hanno fornite due politologi. Dominique Reynié aveva fatto notare già tempo addietro che la costituzione della Nuova unione popolare di Jean-Luc Mélenchon aveva messo in moto una dinamica inedita: a sinistra si giudicava lecito, e anzi opportuno, che un elettore moderato del proprio campo votasse per un candidato considerato estremista (e quelli presentati da La France insoumise, nella quasi totalità, erano gravati di quell’etichetta).

Perché allora, si era chiesto il docente di SciencesPo, non sarebbe dovuto accadere lo stesso a destra? Detto fatto. I dati dimostrano che è andata così. E mentre ha perso quasi tutti gli scontri diretti con avversari che si dichiarano di destra – i Républicains – al cui soccorso sono andati macronisti e mélenchonisti, il Rassemblement national ha trionfato in metà circa dei confronti con i sostenitori del presidente e in gran parte di quelli con i candidati della Nupes.

Insomma, i “castori”, come vengono definiti dai giornalisti coloro che fanno appello a sbarrare la strada al nemico principale, in questa tornata hanno rivolto le proprie attenzioni soprattutto a Ensemble, in nome di un tout sauf Macron che rispecchia la diffusa ostilità dell’opinione pubblica verso un capo di stato considerato troppo arrogante e lontano dalle preoccupazioni quotidiane di buona parte dei cittadini.

Altre considerazioni interessanti le ha svolte Jean-Yves Camus, direttore dell’osservatorio delle radicalità della fondazione socialista Jean Jaurès. Osservando, non senza una punta di polemica, che accademici e commentatori hanno sempre sottovalutato la capacità di esercitare un ruolo non marginale nella politica francese della «famiglia politica della destra nazionale, che taluni chiamano estrema destra», Camus ha sottolineato l’efficacia della scelta di giocare la carta della prossimità, di battere il terreno fino all’ultimo momento, di puntare sui temi che toccano la vita quotidiana delle classi popolari e degli abitanti dei territori periferici, senza trascurare il fatto che la presa di posizione di Macron contro gli opposti estremismi ha spinto molti suoi elettori a starsene a casa quando nella loro circoscrizione ad affrontarsi erano, appunto, Nupes e Rn.

L’elettorato

I primi studi, in effetti, attestano che a votare per il Rassemblement national sono stati in larga misura cittadini con basso reddito e provenienti dagli strati sociali meno privilegiati, a partire dal ceto operaio. In altre parole, quelli che un tempo votavano per un partito comunista oggi costretto a galleggiare sul filo del 2 per cento.

A conferma che quegli studiosi che, come Pascal Perrineau, sostengono da trent’anni l’esistenza di un forte «lepenismo di sinistra», avevano e hanno piena ragione, mentre hanno torto coloro che per pregiudizio ideologico insistono a contestarne le analisi. La contrapposizione tra Francia periferica e Francia metropolitana descritta dal geografo Christophe Guilluy e quella tra blocco popolare e blocco elitario individuata dal politologo Jérôme Sainte-Marie e sottoscritta dall’ex capofila della Nouvelle droite Alain de Benoist hanno dunque dato i loro frutti.

Il grande successo ha certamente risolto una buona parte dei problemi che affliggevano il partito di Marine Le Pen, a partire dall’enorme deficit finanziario: 23,78 milioni di euro di debiti registrati a fine 2020. Per l’effetto cumulato del numero dei deputati eletti, per ognuno dei quali i partiti ricevono 37mila euro l’anno, e dei voti raccolti, il Rn incasserà ogni anno più di dieci milioni di euro, il che gli consentirà di rafforzare le deboli strutture organizzative e di dotarsi di un solido contingente di assistenti parlamentari. Ma, come ha ancora ricordato Camus, ne apre altri non meno importanti.

Fuori dall’isolamento

Ora che è presente all’Assemblea nazionale con un forte gruppo, che gli consente di presentare mozioni di censura e rivolgersi al Consiglio costituzionale, e che può reclamare la presidenza della commissione Finanze in quanto primo gruppo di opposizione, avendo più eletti de La France insoumise, il Rn non può più eludere alcune grandi sfide, cui la marginalità gli ha sinora permesso di sottrarsi.

Dovrà cercare di uscire dalla condizione di isolamento nella quale da sempre si trova, riuscendo a far firmare le sue proposte di legge da esponenti di altri gruppi. Dovrà controllare la sua eterogenea pattuglia di deputati, evitando quelle fughe di cui ha sempre sofferto ogni volta che ha portato propri eletti in un’istituzione – Camera, Europarlamento, consigli regionali e comunali – finendo vittima di scissioni ideologiche o di compravendite da parte di altre formazioni. Dovrà quindi impartire una formazione politica coerente e univoca ai parlamentari, facendo sì che tutti restino fedeli alla sua strategia di “sdemonizzazione”.

Si tratterà insomma di fornire una prova di credibilità e di competenza, per superare due residui ostacoli: lo scetticismo del 50 per cento dell’elettorato circa l’affidabilità democratica di Marine Le Pen e i dubbi sulla capacità dei suoi collaboratori di condurre, un domani, un’azione di governo. Il tutto senza perdere l’immagine di forza alternativa costruita nei decenni ed evitando il pericolo di un riassorbimento nella routine dell’establishment, così come è accaduto in Italia al M5s.

Proseguire nell’opposizione ai “mondialisti” e nelle critiche all’immigrazione e alla disgregazione del tessuto culturale di un paese sempre più multiculturale sarà infatti un tassello essenziale nella strategia di rafforzamento ulteriore del partito, soprattutto ora che la stella di Zemmour è al tramonto e si apre un altro territorio di conquista, peraltro molto arduo. Ovvero quel settore di opinione di tendenze conservatrici e di elevato livello sociale, preoccupato dai flussi migratori e dalla sempre più forte presenza islamica nel paese, che è sempre più deluso dallo slittamento verso il progressismo dei postgollisti ma fin qui ha guardato più con disprezzo che con diffidenza al plebeismo delle campagne “mariniste”.

Quel pubblico resta il bersaglio privilegiato delle attenzioni di Éric Zemmour, che tuttavia se lo sta vedendo rapidamente sfuggire. I quasi due milioni e mezzo di voti raccolti alla presidenziale si sono trasformati nei poco meno di un milione affluiti sui candidati di Reconquête!, pur presenti in quasi tutte le circoscrizioni, alle legislative.

Oggi lo stato maggiore del partito prevede un dimezzamento dei sostegni, soprattutto fra i 127.172 iscritti raccolti tramite internet grazie allo slancio iniziale. Che sarà di questi militanti delusi? Marine Le Pen deciderà di lasciarli cuocere nel loro brodo, facendoseli definitamente nemici, o, tramite l’alter ego Jordan Bardella, invierà loro qualche messaggio sottotraccia per irrobustire le deboli strutture del Rn, vincolandoli però ad atteggiamenti più moderati? Questo e molti altri interrogativi dovranno trovare risposta nei prossimi mesi.

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