Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è riuscito in un’operazione di rebranding fino a poco fa impensabile, facendosi riconoscere a livello internazionale come un mediatore indispensabile nella guerra in Ucraina e non solo. Ogni volta che un nuovo conflitto si riaccende nel mondo, il capo di Stato turco propone di risolvere la controversia, continuando così a rafforzare l’immagine di uomo di pace super partes pronto a difendere la popolazione civile. La realtà però è ben diversa, come dimostra l’ultimo report di End cross-border bombing sui bombardamdenti turchi in Iraq del nord consultato in anteprima da Domani.

Vittime civili

La coalizione - formata tra gli altri da Iraqi Civil Society Solidarity Initiative, Community Peacemaker Teams e l’italiana Un Ponte Per - ha documentato l’impatto delle operazioni militari turche in Iraq tramite interviste e ricerche sul campo, rivelando il vero volto del presidente Erdogan. Tutt’altro che pacifico.

Secondo il report, nel 2022 almeno 20 civili tra cui sei bambini sono stati uccisi e altri 58 sono rimasti feriti a causa dei bombardamenti turchi. Il numero di attacchi in realtà è diminuito rispetto all’anno precedente, passando da 20 a 11, ma con ben pochi benefici per la popolazione civile: nel 2022 il numero di vittime è stato quasi lo stesso rispetto al 2021 e i feriti sono persino aumentati.

Ufficialmente, le operazioni turche contro il nord dell’Iraq sono condotte contro il Partito dei lavoratori curdo (Pkk), considerato dalla Turchia un’organizzazione terroristica, ma nella pratica Ankara fa ben poca distinzione tra combattenti e civili. Un caso emblematico è quello di Tutaqal, un villaggio nel governatorato di Suleymaniyah. L’aviazione turca ha prima colpito una macchina su cui viaggiavano tre membri del Pkk per poi attaccare anche due civili accorsi in aiuto, colpendo la loro vettura e uccidendo tutti gli occupanti.

Ma per finire sotto il fuoco turco non è necessario soccorrere dei combattenti del Pkk: molti degli attacchi sono deliberatamente diretti contro agricoltori e allevatori del tutto estranei alla guerra tra miliziani e Stato turco. L’obiettivo è minare l’economia locale e costringere le persone a lasciare la loro terra per espandere le basi militari ed eliminare qualsiasi possibile rete di sostegno locale per il Pkk. Questo tipo di attacchi, condotti soprattutto con droni, è infatti ricorrente fin dal 2015, secondo uno schema di azione ben preciso e che ad oggi ha causato almeno 40 morti e 36 feriti.

Spopolamento e responsabilità

Gli attacchi turchi hanno anche causato lo spopolamento di circa 500 villaggi nel nord dell’Iraq, soprattutto di quelli più vicini a una delle almeno 60 basi turche sorte negli ultimi anni. La Turchia infatti non si è limitata a lanciare attacchi transfrontalieri, ma ha anche costruito degli avamposti militari in territorio iracheno, approfittando del continuo esodo della popolazione locale.

I bombardamenti turchi però non hanno interessato solo i villaggi. Diverse città della valle del Niniveh sono state più volte attaccate e non è stata risparmiata nemmeno l’area di Sinjar, abitata prevalentemente dalla popolazione yazida.

Questa minoranza religiosa, storicamente discriminata, è stata brutalmente massacrata dall’Isis nel 2014-2015 e si trova adesso a dover fare i conti con gli attacchi turchi, nell’indifferenza di quella comunità internazionale che aveva promesso di proteggerla. Altro target prediletto dell’esercito turco è il campo profughi di Makhmur, dove risiedono circa 11mila persone di origine curda scappate dalla Turchia negli anni Novanta per fuggire alla guerra tra Ankara e Pkk.

Rispetto agli anni precedenti c’è però una novità. Come riportato da End cross-border bombing, anche le forze armate iraniane hanno condotto diversi attacchi nel 2022 contro il territorio iracheno in risposta alle proteste scoppiate in Iran dopo la morte di Mahsa Amini, ragazza di origine curda. Missili terra-terra e droni kamikaze sono stati largamente usati per colpire le basi del Partito democratico curdo-Iran (Kdp-I) in territorio iracheno, ma a pagarne le conseguenze sono stati anche i civili.  

Niente è invece cambiato sul fronte governativo. Né Baghdad né il governo della regione autonoma curda di Erbil hanno intenzione di prendere posizione contro la Turchia. L’attacco del luglio del 2022 contro la zona turistica di Zakho, in cui sono morte nove persone, aveva fatto sperare in una reazione più dura da parte delle autorità, ma un anno dopo nulla è cambiato. Per le vittime e le loro famiglie è quindi difficile ottenere giustizia o anche solo un sostegno economico e sanitario, mentre le organizzazioni civili sono ancora le uniche a monitorare quanto accade sul territorio.  

Erdogan dunque è tutto fuorché un uomo di pace e il credito che è riuscito a guadagnare con la guerra in Ucraina rischia di trasformarsi in un’arma in più per continuare a reprimere e ad attaccare la popolazione civile irachena. Anche grazie all’export militare europeo.

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