Il presidente della Turchia, Recep Tayyip Erdogan, non si piega e tira dritto per la sua strada a costo di far deragliare l’economia del paese della Mezzaluna sul Bosforo.

«Prima o poi l’inflazione scenderà: con l’aiuto di Dio la riporteremo al target del 4 per cento, come quando nel 2002 sono diventato premier». Queste le frasi con cui il presidente turco ha promesso un miglioramento delle condizioni economiche al paese, che assiste impotente a un’inflazione galoppante al 24 per cento e al crollo verticale della moneta, che ha perso il 50 per cento del suo valore da inizio anno e ha toccato lunedì il nuovo minimo di 18 lire contro il dollaro con una perdita giornaliera del 9 per cento, molto di più della media della valute dei mercati emergenti.

Immediatamente a Londra i Credit default swap a cinque anni (il termometro della febbre di un paese), strumenti che tutelano gli investitori dal default di una nazione, sono balzati di 600 punti base dai circa 300 punti base di inizio anno secondo i dati di Iht Markit diffusi da Refinitiv.

Un segnale inequivocabile di quanto stia rischiando Erdogan con la politica dei tassi bassi in presenza di inflazione a doppia cifra.

Qualche giorno fa, lo stesso Erdogan, per cercare di attenuare gli effetti sul caro vita, ha promesso di aumentare del 50 per cento i salari minimi, misura che coinvolge il 40 per cento della forza lavoro in Turchia, introducendo una sorta di scala mobile simile a quella in vigore negli anni Ottanta in Italia. Un pannicello caldo di fronte all’aumento della temperatura del paziente.

La retorica dell’assedio

Anche la Borsa di Istanbul ha subito due sospensioni per eccesso di ribasso mentre lasciava sul terreno il 5 per cento. L’indice della borsa aveva perso l’8 per cento venerdì scorso, segno che la dinamica di vendita si sta spostando dalla valuta alle azioni, provvisoriamente considerate un asset che avrebbe dovuto mantenere il valore.

«La Turchia è sotto attacco, continuiamo su questa direzione, in linea con le regole di mercato, non permetterò che la nostra gente sia strozzata dai tassi di interesse», ha proseguito Erdogan, confermando la politica basata sul taglio dei tassi di interesse, che però fino ad ora ha causato soltanto più inflazione.

Erdogan è contrario all’aumento dei tassi anche per motivi religiosi: li paragona all’usura, pratica proibita dall’islam.

Erdogan inoltre, seguendo una sua personale teoria economica, si rifiuta di aumentare il costo del denaro perché crede che i tassi bassi aiutino sempre la crescita e l’export. Non è così. Anzi così facendo farà deragliare il Pil di un paese da quasi 800 miliardi di dollari e 83 milioni di abitanti, rischiando una crisi finanziaria con conseguente corsa dei risparmiatori agli sportelli bancari prima dell’inevitabile blocco dei capitali per evitare la fuga dei risparmi all’estero.

Non a caso ieri Erdogan ha definito «ridicole» le voci su un blocco dei capitali. Fra breve inviterà i turchi a dare l’oro alla patria. La Tusiad, la potente associazione industriale laica della Turchia, ha chiesto al governo guidato dall’Akp di tornare a una politica monetaria ortodossa alzando i tassi per ridurre l’inflazione, ma Erdogan ha risposto che questo non è affar loro e di non «interferire» con il manovratore.

La Banca centrale turca ha operato tre tagli in quattro mesi dei tassi di interesse, per un totale di 4 punti percentuali; decisioni monetarie cui sono sempre seguite perdite di valore della moneta.

La Cina taglia i tassi

Erdogan non è il solo a tagliare i tassi nel mondo. Un ulteriore elemento negativo per i mercati azionari è arrivato dalla Cina, dove la banca centrale ha deciso di tagliare il “loan prime rate”, che molti analisti interpretano come risposta a un rallentamento dell’economia più forte del previsto.

La mossa è sorprendente. Mentre le maggiori banche centrali mondiali, (la Federal Reserve ha annunciato che alzerà tre volte i tassi nel 2022, la Bank of England lo ha già fatto e più moderatamente la Bce si appresta a ridurre gli acquisti di bond del Pepp), si avviano alla stretta dopo le politiche espansive anti pandemiche spinte dai timori dell’inflazione, la Pboc ha deciso di ridurre per la prima volta in 20 mesi, da aprile 2020, il Loan prime rate (Lpr), tra i tassi preferenziali offerti dalle banche commerciali alla clientela migliore e un riferimento per i tassi applicati agli altri prestiti, portandolo dal 3,85 per cento al 3,80 per cento, ma lasciando invariato quello a 5 anni al 4,65 per cento.

Ma la Cina ha un tasso di inflazione del 2,30 per cento a novembre, rispetto all’1,5 per cento del mese precedente. In Turchia si parla invece del 21 per cento annuo. Jason Tuvey, economista di Capital Economics, che ritiene possibile un aumento dell’inflazione al 30 per cento nei prossimi mesi.

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