È la cronaca di una vittoria annunciata. Senza troppe sorprese, Recep Tayyip Erdogan si conferma presidente della Turchia. Già dai primi scrutini non c’erano molti dubbi: è rimasto sempre in vantaggio rispetto all’avversario, Kemal Kilicdaroglu. Semmai, a seconda delle fonti, poteva variare la forchetta del distacco.

La Turchia ha quindi scelto di affidarsi al suo uomo forte, alla guida di un parlamento mai così nazionalista, per affrontare le sfide che l’attendono. Ma come sarà la Turchia dei prossimi anni e soprattutto dove andrà, geopoliticamente parlando? Quali saranno le principali sfide che Erdogan dovrà affrontare?

La crisi economica

La Turchia è oggi una nazione di 85 milioni di abitanti che corre sul filo di due possibili crisi: la prima economica-finanziaria, la seconda di collocazione nello scacchiere internazionale.

Cominciamo ad analizzare la prima: le politiche poco ortodosse di Erdogan in materia di politica monetaria (si è rifiutato di alzare i tassi per frenare l’aumento dei prezzi al consumo) e la sua focalizzazione sul mantenimento di una crescita elevata almeno del 7 per cento annua, hanno alimentato la domanda di valuta estera, la svalutazione della lira, il calo delle riserve estere della banca centrale e l'aumento vertiginoso dell'inflazione annuale. A ottobre del 2022 ha toccato l’84,45 per cento, il punto più alto da 24 anni.

Senza contare che secondo alcuni economisti indipendenti la cifra reale sarebbe molto superiore. Più recentemente le statistiche ufficiali hanno parlato di un aumento di “solo” il 40 per cento annuo.

Certo, ci sono stati i generosi aumenti salariali dei dipendenti pubblici e l’aumento del salario minimo a compensare la perdita di potere d’acquisto, ma questa situazione di incertezza, causata da generose politiche di pensionamenti anticipati dei dipendenti pubblici e da tassi di interesse troppo bassi, terrà lontani i necessari afflussi di capitali stranieri per finanziare il disavanzo delle partite correnti che viaggia sul 5,5 per cento del Pil.

La Turchia ha bisogno degli investitori stranieri per finanziare questo deficit perché ha una scarsa capacità di risparmio interno.

Le scelte obbligate

Alzare i tassi (e di molto) sarà la scelta obbligata della banca centrale nel breve termine, ma provocherà uno shock sui prestiti alla clientela e alle imprese e sulla crescita economica.

Secondo l’agenzia di rating Fitch il debito estero in scadenza nei 12 mesi fino alla fine di aprile 2023 è di 182 miliardi di dollari, una cifra rilevante, per di più in un contesto di condizioni di finanziamento globali più rigide e dei maggiori costi di finanziamento della Turchia. Certo, ci sono sempre i generosi e provvidenziali prestiti (swap) dei paesi del Golfo e in particolare del Qatar che hanno tratto d’impaccio in passato Ankara da situazioni difficili; ma per Erdogan la situazione resta piena di incertezze, nonostante la rielezione, anche perché il paese resta diviso e fortemente polarizzato.

Inoltre una recente legge, varata per favorire la stabilità, ha promesso di accollare alle casse dello stato le eventuali perdite valutarie dei conti correnti in valuta locale detenute nelle banche in caso di svalutazione della lira turca, un macigno che pesa sui conti pubblici futuri.

Senza contare il peso della ricostruzione dei territori colpiti dal terremoto di febbraio che potrebbe raggiungere i 104 miliardi di dollari e che ha provocato 50mila morti e 1,5 milioni di profughi.

Turbolenze

C’è una profonda cesura nella storia degli ultimi vent’anni del paese: i primi dieci anni del governo Erdogan nel 2003 la nazione ha visto, grazie alle riforme varate dal precedente ministro delle Finanze, il socialdemocratico Kemal Dervis, uno sviluppo impetuoso e il passaggio del Pil pro capite da 2500 a 10mila dollari.

Poi sono sopraggiunte recessioni economiche, una crisi dei rifugiati provenienti dalla Siria, scandali di corruzione, dure repressioni di movimenti di protesta come quello ambientalista di Gezi Park avvenuta dieci anni fa, il 28 maggio 2013, e un tentativo di colpo di stato nel luglio 2016. Un decennio che definire turbolento è un eufemismo.

Uno “swing state”

L’altra crisi che sottende il paese medio orientale riguarda la sua collocazione geopolitica.

Secondo l’analista di politica estera Ian Bremmer, questo approccio di mediazione tra occidente e oriente alla politica estera «contribuirà a consolidare il ruolo della Turchia come “swing state”, stato geopolitico in bilico, ma renderà Ankara anche un alleato più inaffidabile e aumenterà il rischio di errori di calcolo».

È possibile che a breve Erdogan darà il via libera all’ingresso della Svezia nella Nato, ma a condizione di avere soddisfazione sul fronte di far cessare le simpatie svedesi per le rivendicazioni di autonomia dei curdi e di ricevere da Washington i caccia F-16.

La Turchia geopoliticamente diventerà sempre più fondamentale per gli equilibri regionali. Tuttavia, la sua capacità di servire più efficacemente i propri obiettivi nazionali potrebbe incrinare la fiducia dei suoi alleati tradizionali, Unione europea e Stati Uniti d’America. Una sfida che rischia di minare anche la stabilità di Erdogan, nonostante la rielezione di ieri.

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