Nel marzo 2020 – mentre Wuhan era stretta nella morsa di un coprifuoco mai visto in tempo di pace – la Cgtn mandava in onda i Vil Videos with Ryan”. Il protagonista di quella serie di clip prodotti dalla all news cinese era James Ryan Nolton, giovane insegnante d’inglese in un college pechinese che aveva «deciso di condividere le mie vere opinioni sulle notizie di attualità e la mia vita di tutti i giorni qui in Cina», per «rassicurare i miei amici e la famiglia a casa».

Quelli di Ryan erano i racconti di un lăowài (uno straniero) entusiasta della risposta delle autorità all’epidemia di Covid-19. Nel secondo episodio - Miracolo cinese: l’ospedale Huoshenshan (di Wuhan) –, esclamava: «La cosa incredibile è che l’hanno tirato su in soli dieci giorni, soltanto dieci giorni... io non riuscirei a completare nemmeno uno dei nuovi Lego set così rapidamente!». E, mentre scorrevano le immagini delle tute blu a lavoro nel cantiere, Ryan ricordava lo sforzo di 7mila operai e lodava una «straordinaria organizzazione: credo che una cosa del genere possa accadere solo in Cina!».

Come l’americano Ryan, tanti altri lăowài stanno descrivendo con ammirazione la Cina dagli schermi della Cgtn. Il “viaggiatore” Olivier Grandjean (dello staff francese della Cgtn) nella trasmissione The point ha ripercorso la sua prima volta nel Xinjiang. Grandjean ha scoperto che nella regione del nord ovest «ci sono molte etnie: uiguri, han, kazaki, kirgizi, mongoli, ognuno con la propria cultura, che condividono con gli altri gruppi». E, alla conduttrice Lu Xin, ha rivelato candidamente l’obiettivo della sua missione: «Quando i miei amici e parenti hanno visto i documentari che ho girato lì, hanno dimenticato la politica e si sono concentrati sul rapporto tra l’uomo e la natura e sulla vita delle persone che non hanno niente a che fare con la politica».

Dialogue - un altro programma della Cgtn - può vantare frequenti interventi di Michele Geraci, professor of practice di Economic policy all’Università di Nottingham-Ningbo, tra i principali artefici dell’ok dell’Italia alla nuova via della seta ai tempi del governo giallo-verde, quando era sottosegretario al ministero dello Sviluppo.

Nelle ultime settimane, la Cgtn sta trasmettendo quotidianamente documentari sulla minoranza uigura: storie di ballerine in erba, giovani promesse del calcio, studenti di ogni ordine e grado che - sotto la patriottica e compassionevole tutela di precettori han - vengono trasferiti nelle metropoli più sviluppate della Cina. Si parte dal doloroso distacco dalla terra avita e si finisce con la felicità per la realizzazione di sogni e progetti condivisa sui social.

La CNN posticcia

Nella “nuova èra” non c’è più spazio per le politiche di affirmative action, ora si cerca esplicitamente la “fusione”, la “standardizzazione” dei gruppi etnici con una concezione sovra-nazionale dello “stato-nazione” cinese (zhōngguó mínzú). I media cinesi rivendicano davanti al mondo anche le politiche più controverse del governo.

Nata il 31 dicembre 2016 dalle ceneri della vecchia Cctv News, la Cgtn ha il suo quartier generale a Pechino e uffici di corrispondenza a Washington, Nairobi e Londra. Con le sue trasmissioni in inglese, francese, spagnolo, russo e arabo raggiunge 160 paesi. Il suo motto è: «See the difference».

La tv satellitare globale voluta da Xi Jinping per tirare la volata alla Nuova era non si limita a utilizzare massicciamente testimonial stranieri. Con decine di inviati e corrispondenti copre tutti i principali avvenimenti internazionali e manda in onda anche programmi interessanti, in particolare su economia e relazioni internazionali.

Il bersaglio principale della Cgtn è rappresentato dagli Stati uniti. Nel 2020, 50 dei 64 milioni di dollari spesi da Pechino per fare informazione negli Usa sono stati appannaggio della sua tv all news. Sul podio della tele lobbying cinese anche il Qatar (secondo) e la Russia (terza).

Nel complesso, nel suo palinsesto lo stigma della propaganda è ben visibile. In Gran Bretagna la Cgtn è ricomparsa il 20 agosto scorso grazie a un accordo tra i governi di Londra e Pechino, dopo che, nel febbraio scorso, le era stata revocata la licenza perché «controllata da un organismo controllato dal Partito comunista cinese». Negli Usa invece il dipartimento di Giustizia nel 2018 l’ha costretta a registrarsi come “agente straniero”.

Zhao, la star dei social

L’altro territorio su cui la “controinformazione” di Pechino prova a dare battaglia al mainstream occidentale è quello dei nuovi media. Oltre alla Cgtn, l’agenzia di stampa Xinhua, il tabloid nazionalista Global Times, il People’s Daily e China Daily – segnalati dai social media occidentali come “China-state affiliated media” – ogni giorno producono migliaia di post in lingua straniera. A dirigerne l’operato, così come quello dell’intero sistema dell’informazione, è il dipartimento di propaganda del partito comunista.

L’avvento del trumpismo ha convinto Pechino che fosse arrivato il momento di far scendere in campo i suoi “wolf warrior” (dal titolo di una serie di film nazionalisti campioni d’incasso), diplomatici guerrieri mandati a combattere sul fronte dei social.

La stella più brillante è quella di Zhao Lijian (particolarmente apprezzato nel firmamento nazionalista), l’esplosivo portavoce del ministero degli Esteri che su Twitter ha superato il milione di follower.

Negli ultimi giorni Zhao ha concentrato la sua attenzione sugli splendidi paesaggi e sulle tradizioni culinarie del Xinjiang e sul ritiro delle truppe Usa da Kabul, che ha paragonato a quello da Saigon col commento: «La storia si ripete».

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Soprattutto nei paesi emergenti (ma anche in Italia, dove Radio Cina Internazionale ha oltre 428mila follower su Facebook) i grandi media cinesi controllati direttamente dal partito formano giornalisti locali, condividono contenuti e stringono partnership con testate prestigiose (ad esempio, un paio d’anni fa il governativo Economic daily ha sottoscritto un accordo col Sole 24 Ore).

La International Federation of Journalists non ha dubbi: secondo il suo rapporto The China Story: Reshaping the World’s Media (giugno 2020), siamo di fronte a «una strategia sistematica e sofisticata della Cina», uno «sforzo di lungo periodo per rimodellare il panorama internazionale dell’informazione attraverso una narrazione globale amichevole nei confronti della Cina».

Nell’attuale fase segnata dalla guerra commerciale-tecnologica con gli Stati Uniti e dalla velenosissima controversia sull’origine del Sars-CoV-2 sarebbe interessante poter valutare l’efficacia dello sforzo globale della propaganda cinese. L’ultimo rapporto del Pew Research Center (giugno 2021) suggerisce che è stato sufficiente l’ingresso alla Casa Bianca di Joe Biden per spingere ai minimi storici gli indici di gradimento di Xi Jinping. Si tratta però di uno studio parziale, condotto in 17 economie avanzate.

«Abbiamo un problema»

A large screen in a press center in China's southern island province of Hainan shows the country's president, Xi Jinping, giving an online speech at the Boao Forum for Asia on April 20, 2021. (Kyodo via AP Images) ==Kyodo

Uno degli slogan principali che Xi lanciò subito dopo essere salito al potere nel novembre 2012 esortava proprio a raccontare bene il punto di vista della Cina (jiănghăo zhōngguó gùshi). Sembrerebbe che al contrario Pechino stia dilapidando il consenso che aveva ottenuto grazie al lancio (nel 2013) del brand della nuova via della Seta.

C’è, evidentemente, qualcosa che non funziona nella rappresentazione che i media cinesi propongono al mondo, è lo stesso dibattito interno a confermarlo.

Il mese scorso il pechinese Center for China and Globalization ha ospitato un forum sull’argomento in occasione del lancio del volume I Talk About China to the World (wŏ xiàng shìjiè shuō zhōngguó).

Il professore Chu Yin (della University of International Relations) ha avvertito che lo sforzo di spiegare bene la Cina rischia di fallire se Pechino continua a limitarsi a «riproporre la propaganda interna in quella esterna».

Chu ha evidenziato tre effetti indesiderati di questo modus operandi: narrazioni conflittuali e malintesi culturali; narrazioni poco professionali; effetto boomerang. Anche Dong Guanpeng non ha risparmiato critiche.

Secondo il direttore della School of Government and Public Affairs della Communication University of China, la Cina «parla troppo e ascolta troppo poco» e ciò provoca: un’asimmetria tra lo status del paese e la sua immagine internazionale; l’esclusione delle voci di alti funzionari e accademici cinesi dai grandi media occidentali; e la mancanza di fiducia nei messaggi che Pechino invia all’estero.

Il fatto è che i media vecchi e nuovi per il partito comunista cinese rimangono uno strumento della maoista “linea di massa”, sono concepiti e utilizzati per educare e mobilitare il popolo attraverso la propaganda, un’esigenza che difficilmente si concilia con i gusti di una audience globale.

E ciò ha prodotto il paradosso di una Cina che è diventata il principale partner commerciale di 130 paesi, ma che non ha una Cnn, né una Associated Press e nemmeno un Financial Times.

Uno dei principali punti di debolezza del softpower cinese è che al momento non dispone di alcun media in grado di influenzare l’opinione pubblica e/o i policymaker in occidente.

All’interno della Cina, lo sviluppo tecnologico ha costretto la propaganda e la censura a una continua rincorsa, per stare al passo con una popolazione che detiene il primato mondiale di connessioni da smartphone (940 milioni), dettando modi e tempi di fruizione di notizie e contenuti.

I giornali cartacei sono spariti da una quindicina d’anni, oggi il grosso dell’informazione viaggia sulle app: Tencent news, Toutiao (di ByteDance, lo stesso proprietario di TikTok) e Sina news, tutte con centinaia di milioni di utenti quotidiani attivi.

Si tratta di aggregatori i cui algoritmi forniscono una selezione, tagliata sulle preferenze dell’utente, tra migliaia di testate e blog di influencer.

La normalizzazione

In Cina si stampano circa 1.850 giornali e sono visibili circa 3.000 canali televisivi. Se si eccettuano quelli specialistici, i media commerciali in Cina possono essere solo locali, controllati dalle relative articolazioni del dipartimento di propaganda.

Come ricorda Ya-Wen Lei nel suo The Contentious Public Sphere: Law, Media and Authoritarian Rule in China (Princeton University Press) all’origine di quest’obbligo c’è «il timore che un media nazionale venga usato da fazioni all’interno del partito-stato», come durante le proteste del 1989, quando il People’s Daily appoggiava i leader riformisti Hu Yaobang e Zhao Ziyang e decine di redattori si unirono agli studenti di Tiananmen gridando «Non abbiamo scritto noi l’editoriale del 26 aprile!», quello che diede il la alla sanguinosa repressione da parte dell’esercito del 4 giugno.

Per anni uno dei media più liberal e intraprendente è stato il Nanfang Zhoumo, fondato nel 1984 a Guangzhou (Canton). Nel gennaio 2013 (Xi era salito al potere due mesi prima), un gruppo di reporter del Nanfang pretese le dimissioni del capo del dipartimento provinciale di propaganda, Tuo Zhen, che aveva riscritto interamente l’editoriale di capodanno che auspicava per la Cina un “governo costituzionale” incollandovi slogan del partito.

Centinaia di persone manifestarono per la libertà di stampa davanti alla redazione del giornale.

La leadership mise a tacere quella clamorosa protesta con una direttiva del dipartimento centrale di propaganda indirizzata a tutti i media: «Il controllo dei media da parte del Partito costituisce un irremovibile principio di base».

Al momento lo shanghaiese The Paper (fondato nel 2014) prosegue in parte nel solco del Nanfang, praticando un giornalismo d’inchiesta, anche su temi scomodi. I media cinesi commerciali sono liberi di affrontare argomenti sociali scottanti, denunciare la corruzione dei funzionari locali… ciò che non è tollerato è che venga criticata la “linea generale del Partito” né i suoi leader.

Il vento fresco di Internet

In this Aug. 16, 2016 photo, an attendee walks past a live visualization of internet attacks across China during the 4th China Internet Security Conference (ISC) in Beijing. China's ruling Communist Party has expelled a leading internet censor and accused him of a range of crimes and rule breaking from corruption to failing to properly guide public opinion. (AP Photo/Ng Han Guan)

A partire dalla metà degli anni Novanta Internet – accessibile ai cinesi fin dal 1994 – mise in discussione il monopolio del Partito sull’informazione. Dai primi anni Duemila, proliferarono siti e blog indipendenti che iniziarono a raccontare le malefatte di funzionari senza scrupoli che – erano gli anni del super boom economico ed edilizio – intascavano tangenti milionarie da industriali e costruttori, e se la spassavano tra “seconde mogli” (èr năi), macchine sportive e banchetti luculliani.

Un manipolo di media coraggiosi, guidati da editori impazienti di aumentare le vendite dopo che le liberalizzazioni della fine degli anni Novanta li avevano privati dei sussidi statali, riuscì a sfuggire alle maglie della censura di un partito a quei tempi meno occhiuto.

La professionalizzazione del giornalismo cinese produsse una serie d’inchieste che svelarono casi clamorosi di malaffare, e costrinsero perfino le autorità a rivelare ai cittadini la reale entità dell’epidemia di Sindrome acuta respiratoria grave (Sars) nella primavera 2003. In quello stesso anno esplose la moda dei blog.
Nel 2006, il sindaco di Shanghai e membro dell’Ufficio politico del Partito, Chen Liangyu, venne arrestato con l’accusa di essersi appropriato del denaro dei cittadini investito in un fondo pensione. Sul portale Sina un utente poté denunciare che «il potere dei funzionari del Partito comunista è eccessivo. È la mancanza di vigilanza che ha creato questa situazione».

Era una Cina molto più libera di quella attuale, nella quale si parlò di “primavera dei media”.

Oltre al dissenso liberale (la “destra” del Partito) c’era spazio anche per quello, da sinistra, dei neo–maoisti di “Utopia”, “Riva sinistra”, “Nuovi lavoratori”, “Bandiera di Mao” e altri, che usavano i loro blog come virtuali dàzìbào, i poster a grandi caratteri della Rivoluzione culturale che le guardie rosse affiggevano sui muri di tutto il Paese per criticare le istituzioni.

Nel 2009, quando Sina lanciò i suoi micro–blog (wēibó), l’equivalente di Twitter, l’internet cinese subì un nuovo scossone. Il 5 luglio di quello stesso anno, i netizen utilizzarono i social media per far arrivare all’estero video e immagini dei linciaggi di civili han da parte di folle di uiguri, delle ronde dei vigilante han armati di bastoni e dei pattugliamenti dell’Esercito popolare di liberazione nelle strade di Urumqi. Dopo quel massacro (197 morti), la Grande muraglia informatica ha bloccato l’accesso a YouTube e Twitter.

La Nuova èra

Il 23 luglio 2011, due treni ad alta velocità si scontrarono alla periferia di Wenzhou. Rimasero uccisi 40 passeggeri e, questa volta, a informare i cittadini di ciò che stava succedendo nella metropoli della costa orientale fu Weibo, che aveva già raggiunto 300 milioni di utenti. A fare il giro del mondo furono le immagini choc – postate da chi era a bordo dopo lo scontro tra due “bullet train” – di operai che sotterravano in tutta fretta le carrozze incidentate nel tentativo di nascondere l’entità del disastro.

Tre mesi dopo quell’episodio, il Partito riaffermò la necessità di «rafforzare la capacità di indirizzare e controllare i social media e gli altri strumenti di comunicazione per salvaguardare la sicurezza dell’informazione nazionale».

L’arrivo di Xi Jinping ha impresso un’accelerazione decisiva al varo di una politica organica di sviluppo e controllo della rete e dei media online.

Il 25 gennaio 2019, una sessione di studio ad hoc dell’Ufficio politico, Xi Jinping ordinò di «rafforzare e controllare i nuovi media secondo la legge, per assicurare un cyberspazio più pulito».

Il fermento, la professionalizzazione dei media e gli esperimenti di citizen journalism sono ormai un lontano ricordo dell’era Hu Jintao–Wen Jiabao. Con l’inedita concentrazione di potere nella leadership del Partito promossa da Xi, censura e autocensura hanno riportato i media cinesi a un conformismo quasi totale.

Il 3 settembre 2018 correva ancora l’anno I della Nuova era proclamata da Xi al XIX Congresso del Partito comunista cinese (18–24 ottobre 2017). Quel giorno il People’s Daily (rénmín rìbào) uscì con un’indimenticabile prima pagina nella quale il nome del segretario generale veniva ripetuto in 12 titoli.

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