Il 3 ottobre Maryam ha visto avverarsi il peggiore dei suoi incubi. Non si chiama davvero Maryam: i nomi delle persone citate in questo articolo sono stati cambiati per ragioni di sicurezza. Quel giorno di ottobre suo marito, Ibrahim, è stato giustiziato dopo sei anni di detenzione. «La notizia della sua esecuzione è stata uno shock», dice lei. «Lo abbiamo saputo dagli avvocati dei suoi compagni di prigionia. La conferma ci è poi arrivata dall'obitorio di Zeinhom al Cairo che ci ha restituito il corpo dopo due giorni».

Condanne a morte

Quello del marito di Maryam non è un caso isolato: dal 3 al 13 ottobre in Egitto, sono state eseguite 49 condanne a morte. Nel mese di ottobre, in totale, le esecuzioni sono state 53, cifra che supera il numero per anno di quelle eseguite dal 2017 a oggi, scrive in un comunicato l'Eipr (Egyptian initiative for personal rights). Il capo del dipartimento che si occupa della giustizia penale e che ha stilato questa nota di Eipr, organizzazione a cui appartengono gli avvocati di Patrick Zaki, è Karim Ennarah, uno dei tre dirigenti arrestati la scorsa settimana.

Tra i prigionieri giustiziati, quindici erano stati condannati per presunto coinvolgimento in tre casi di violenza politica, e alcuni di loro anche per affiliazione ad associazione terroristica, in particolare ad Ajnad Masr, gruppo che in Egitto ha rivendicato diversi attentati tra il 2014 e il 2015. Tra gli altri 34 cittadini giustiziati dopo procedimenti penali, due donne.Le vicende di tutti loro descrivono il clima di violenza contro i dissidenti politici che abbiamo imparato a conoscere in questi anni, con sentenze di massa che hanno colpito in particolare i sostenitori dei Fratelli Musulmani, il movimento del presidente Mohammed Morsi, deposto nel 2013 con un colpo di stato da quello attuale, Abdel Fattah el-Sisi.

Torture e privazioni

«Mio marito è scomparso per 25 giorni», dice Maryam. «Gli agenti della National Security lo hanno tenuto appeso per le mani, poi gli hanno inflitto l'elettroshock sui genitali; un agente lo ha denigrato dicendogli che non sarebbe stato più in grado di avere dei rapporti sessuali». Secondo la sua famiglia e gli avvocati, le prove a carico di Ibrahim erano false.

Durante questa ondata di esecuzioni è accaduta una cosa inusuale per l'Egitto: i nomi dei prigionieri giustiziati sono stati pubblicati dai quotidiani locali. Solo grazie a questo molti familiari, a digiuno di notizie da tempo, ne hanno conosciuto la fine. «Hanno saputo della morte dei cari dai giornali», riferisce uno dei legali, che vuol restare anonimo. «Nel migliore dei casi, sono stati chiamati dalle prigioni per ritirare le salme. Altre volte, non li hanno neppure informati».

La serie di esecuzioni è iniziata dieci giorni dopo un tentativo di fuga da Aqrab, braccio della morte del carcere di Tora, che ha provocato la morte di tre agenti e di un militare. L'incidente ha ulteriormente inasprito i controlli all'interno delle carceri egiziane. Nella sezione Istiqbal, a Tora, centinaia di prigionieri sono entrati in sciopero della fame dopo che gli agenti li hanno privati di tutti i loro oggetti personali lasciandoli solo con due coperte e due uniformi. «Le perquisizioni avvenivano continuamente e mio marito veniva sempre privato delle poche cose che aveva, coperte, vestiti nonostante il freddo», dice Fatima, moglie di un altro detenuto giustiziato lo scorso 3 ottobre. «L'ultima volta l'ho visto a settembre del 2019, poi hanno sospeso le visite anche a causa della pandemia. Aveva perso tutti denti e per un periodo la vista per via delle torture subite». Anche Ossama è stato condannato per scontri avvenuti nel 2013, è scomparso per 11 giorni, ha subito torture e il suo nome è stato inserito nelle indagini sette mesi dopo il suo arresto. Secondo la famiglia e i legali, le accuse contro di lui sono false.

Le condanne a morte in Egitto sono aumentate dal 2015 e ora il paese nordafricano è il decimo al mondo per numero di condanne capitali eseguite. «La mamma di Ossama ha perso la vista a furia di piangere», dice Fatima. «Siamo ancora tutti sotto shock, sino all'ultimo ho sperato in un'amnistia. Ora devo occuparmi dei miei figli, mi chiedono di lasciare questo paese il prima possibile».

© Riproduzione riservata