L’Etiopia del miracolo economico, delle riforme innescate dal primo ministro Abiy Ahmed Ali, nobel per la pace 2019 «per i suoi sforzi di cooperazione internazionale e la sua decisa volontà di porre fine al conflitto con l’Eritrea», l’Etiopia modello di sviluppo democratico, sta sprofondando nel baratro del caos con una accelerazione impressionante.

Esattamente un anno fa, a seguito di una tornata elettorale – organizzata e svoltasi in Tigray con un afflusso massiccio della popolazione e verificata da osservatori internazionali, ma mai assecondata da Addis Abeba – il Tplf (fronte popolare di liberazione del Tigray) interrompeva le linee di comunicazione con il resto del paese, conquistava caserme e armamenti appartenuti all’esercito centrale e faceva intendere di considerare la propria regione separata dall’Etiopia.

La risposta di Abiy non si fece attendere. Nel giro di poche ore diede inizio a una vera e propria escalation militare che faceva precipitare le regioni settentrionale del paese in uno stato di guerra permanente e la popolazione in una condizione di gravissima emergenza umanitaria. Un anno dopo si calcola che dei 6,5 milioni di abitanti dell’area, 5,2 siano in stato di acuta necessità alimentare.

I morti, tra eserciti che si fronteggiano e, soprattutto, civili, sarebbero decine di migliaia, tantissimi di loro sono vittime di orrende carneficine, stragi di massa, massacri compiuti ripetutamente da ambo le parti. Gli sfollati interni ammontano a 2,1 milioni a cui vanno ad aggiungersi gli oltre 60mila fuggiti in Sudan (nel frattempo travolto da un golpe militare). Intanto, dalla regione del Tigray, il conflitto si è esteso ad altre zone come Gondar del nord e del sud, Wag Hemra, Wollo del nord e del sud oltre che nell’area dell’Afar.

La crisi economica

Dal 3 novembre 2020, Abiy, che fino a quel momento ostentava una immagine di sé quale leader democratico aperto al confronto, riformista e attento alle minoranze (lui stesso è di etnia Oromo e di fede evangelico-pentecostale in un paese a stragrande maggioranza cristiano ortodosso), avvalorata da alcuni risultati anche se mai del tutto scevra da atteggiamenti autocratici, sembra essere posseduto da un demone della guerra

Incurante di appelli interni ed esterni al dialogo, ha esacerbato i toni del conflitto e investito un numero enorme di risorse umane e finanziarie senza, peraltro, giungere ad alcun esito per lui favorevole. Al contrario, l’Etiopia, la leonessa ruggente dell’economia africana, uno dei paesi secondo la World Bank dalla crescita più rapida al mondo con un più 10 per cento minimo stabile fino a qualche anno fa, l’hub geopolitico di grande rilevanza per la sua stabilità in un’area di conflitti e squilibri e sede dell’Unione africana, ha fatto registrare un tracollo verticale in soli 12 mesi.

Sul fronte economico, la disfatta si spiega con le spese militari che hanno superato i 500 milioni di dollari in un anno (aumentate di almeno una cinquantina di milioni rispetto al 2020), la fuga degli investitori una volta attratti dal tasso di sviluppo, la stabilità politica ed economica, ora spaventati dal precipitare degli eventi e il costo della vita che, per difficoltà di approvvigionamenti, colture e allevamenti abbandonati per la guerra e scarsità di prodotti dovuti anche alle ricorrenti carestie, è salito enormemente.

La crescita economica, quindi, che era già scesa al 6 per cento nel 2020 in gran parte per la pandemia, raggiungerà il 2 per cento entro la fine dell’anno. Il minimo storico mai toccato negli ultimi venti anni secondo quanto riporta il Fondo monetario internazionale.

La chiamata alle armi

A un anno esatto dall’inizio della guerra, con una retorica in perfetto stile Menghistu ( il “Negus Rosso” che instaurò una feroce dittatura tra il 1977 e il 1991), Abiy ha rilasciato un farneticante comunicato nel quale glorifica «i nostri eroi che hanno pagato l’estremo sacrificio per difendere i nostri confini» e, attraverso particolari truculenti, chiama il popolo a «unirsi al nostro esercito» e a respingere «il codardo, il maligno, il traditore».

L’appello, che arriva assieme alla proclamazione dello stato di emergenza nazionale, si è sùbito trasformato in una vera e propria chiamata alle armi. Nella mattinata del 3 novembre, ad Addis Abeba, funzionari dell’esercito hanno chiesto ai residenti di registrare le armi in proprio possesso e prepararsi a proteggere i loro quartieri minacciati dai ”terroristi”.

Più che una convocazione di un comandante verso i suoi condottieri, in realtà, il richiamo suona come il disperato tentativo di un leader in disarmo che nelle ultime settimane ha infilato una serie devastante di fallimenti. Il Tplf ha da poco dichiarato di aver conquistato Dessie e Kombolcha, due città strategiche a 400 chilometri dalla capitale e annunciato anche l’imminente presa di Kemise, ancora più vicina. Nel frattempo, nella mattinata del 3 novembre, l’Esercito di liberazione Oromo (Ola), che ha stretto un’alleanza con il Tplf ad agosto, ha rilasciato una dichiarazione che suona perentoria. I combattenti fanno sapere che la conquista di Addis Abeba è «questione di mesi, se non di settimane».

Con Addis Abeba probabile imminente terra di conquista e le capitali di mezzo mondo in allerta, da alcuni giorni si rincorrono notizie di un aeroporto della capitale preso d’assalto da diplomatici di molti stati e cittadini etiopi che se lo possono permettere, pronti a tutto pur di lasciare al più presto il paese.

In un dettagliato report reso pubblico nella giornata di mercoledì 3 novembre, l’Alta commissione delle Nazioni unite per i diritti umani e la commissione etiope per i diritti umani, denunciano le atrocità commesse da entrambe le fazioni nella «guerra brutale combattuta in Etiopia», alcune delle quali possono essere configurate come «crimini contro l’umanità».

La commissaria per i diritti umani Michelle Bachelet, a margine della presentazione del rapporto che, tra le altre cose, descrive con dovizia di particolari stragi, stupri di massa e mutilazioni, denuncia gli orrori commessi da militari dei vari fronti, ma si scaglia in particolar modo contro battaglioni eritrei giunti in soccorso di Abiy in una tragica nemesi che vede gli ex acerrimi nemici ora collaborare in nuove atrocità. Immediate le risposte del primo ministro che addossa tutte le responsabilità al Tplf: «È stato lui a premere il grilletto del tragico conflitto» e del portavoce del fronte che sconfessa il rapporto bollandolo come «zeppo di inesattezze».

 

© Riproduzione riservata