«Caro Peter, è da tempo che vorrei scriverti, ma le ultime notizie mi hanno chiarito che rimanere in silenzio è semplicemente pericoloso. I miei ex colleghi sono in prigione. Per diversi mesi i miei amici hanno fatto fatica a ottenere l’attenzione dei media internazionali. Ora è successa una cosa che ha catturato l’attenzione delle maggiori agenzie di stampa, ma mi chiedo quanto durerà. C’è un modo per tenere alta l’attenzione? Mi sento come se fossimo ostaggi qui, e fa paura. Ora tutto, qualsiasi crimine, è diventato possibile qui».

Ho ricevuto questo messaggio da un amico in Bielorussia quest’estate, un paio di giorni dopo che il dittatore del paese, Aleksandr Lukashenko, ha usato un caccia MiG per abbattere un volo commerciale internazionale che aveva violato il “suo” spazio aereo e ha fatto sequestrare un giornalista bielorusso e la sua ragazza che vivevano da tempo in sicurezza, si presumeva, in Lituania. Qualche giorno dopo il giornalista sequestrato, Roman Protasevich, è apparso sulla tv di stato con evidenti segni di tortura e ha confessato il tradimento in scene che ricordavano i processi farsa staliniani.

Quella che chiamiamo la comunità internazionale è rimasta indignata; sono state usate le parole «sequestro» e persino «atto terroristico».

Poi, come il mio amico temeva, tutto è stato dimenticato.

Perdita di memoria

Le conseguenze per Lukashenko sono state lievi, come il divieto per la compagnia aerea di stato di volare in Europa. Il suo messaggio a chiunque osasse opporsi è stato più potente: posso fare a voi quello che voglio, ovunque voi siate.

Mi sono faticosamente dato da fare per rispondere alla richiesta del mio amico. Affinché un singolo evento venga ricordato, deve essere sostenuto da una storia più grande in cui fluisce. Chiunque abbia giocato a un gioco di memoria saprà che si ricordano cose particolari inserendole in una sequenza in cui assumono significato come parte di un tutto più ampio.

Allo stesso modo nei media e in politica, un episodio ha potere solo come parte di una narrazione più ampia.

I crimini oltraggiosi di Lukashenko però non sono entrati in una catena di significato più ampia.

E non è solo la Bielorussia. Dalla Birmania alla Siria, dallo Yemen allo Sri Lanka, abbiamo più prove che mai di crimini contro l’umanità: torture, attacchi chimici, bombardamenti, stupri, repressione e detenzioni arbitrarie. Ma le prove faticano a catturare l’attenzione, per non parlare delle conseguenze. Abbiamo più opportunità di pubblicare; non siamo limitati dalla geografia; il nostro pubblico è potenzialmente globale. Eppure la maggior parte delle rivelazioni o delle indagini non riesce ad avere molta presa. Come mai?

La narrazione

Il crollo dell’Unione sovietica avrebbe dovuto stimolare l’introspezione e incoraggiarci a non escludere nessuno dalla più grande storia dei diritti umani contro la repressione politica. Per un momento, negli anni Novanta, questo è sembrato possibile. Quando l’ondata di democratizzazione ha ribaltato le dittature filosovietiche e filoamericane in tutto il mondo, la Corte penale internazionale è stata istituita all’Aia, nel 1998; interventi umanitari sono stati condotti con successo dai Balcani occidentali all’Africa orientale, sembrava che la giustizia sarebbe stata amministrata in modo più equo.

Ma poi è successo qualcosa di diverso. Invece di far entrare più personaggi nella storia dei diritti umani, l’intera storia è crollata. Una situazione in cui alcune vittime hanno ricevuto più attenzione di altre è stata sostituita da una situazione in cui nessuna vittima ha ricevuto un’attenzione prolungata. Gli orrori della Seconda guerra mondiale avevano costretto il mondo ad adottare la Dichiarazione dei diritti umani delle Nazioni unite, almeno in linea di principio, e le catastrofi del dopo Guerra fredda a Srebrenica e in Ruanda avevano incoraggiato gli interventi umanitari e dato uno slancio verso un “diritto alla protezione”.

Nei precedenti crimini contro l’umanità, l’ignoranza è sempre stata una scusa. Da Auschwitz a Srebrenica al Ruanda, i leader potevano affermare di non essere a conoscenza dei fatti, che i fatti erano equivoci o che gli eventi si sono svolti troppo rapidamente per poter agire.

Ora invece abbiamo accesso a media onniscienti che spesso ci forniscono prove abbondanti e istantanee, eppure hanno meno significato di prima. Il quadro dei crimini rimane un pasticcio di immagini spezzate.

Tutto ciò appariva diverso durante la guerra fredda. Allora sembrava esserci una connessione tra l’arresto di un solo dissidente sovietico e una più ampia lotta geopolitica, istituzionale, morale, culturale e storica. I media, i libri e i film dell’epoca raccontano le storie di prigionieri politici discreti e di violazioni dei diritti umani come parte di un racconto più ampio e unito nella grande battaglia della libertà contro la dittatura, una battaglia per l’anima della storia. E la storia per intero ha fatto sentire più in pace l’opinione pubblica nelle democrazie, era parte di un’identità: siamo dalla parte della libertà contro la tirannia. C’erano istituzioni che sostenevano questa narrazione.

I prigionieri politici si sentivano meno vulnerabili quando le informazioni sul loro arresto venivano annunciate alla Bbc o su Radio Free Europe, riprese da Amnesty International, annunciate alle Nazioni unite, riprese dai presidenti degli Stati Uniti nei vertici bilaterali con la leadership sovietica.

Insieme, tutti questi elementi hanno sostenuto l’attenzione. E quando sono stati rivelati i peccati dell’occidente, come il programma della Cia di assassinii durante la guerra fredda e colpi di stato negli anni Settanta, significava che esisteva un quadro esistente attraverso il quale catturare l’attenzione e l’indignazione del pubblico occidentale.

C’era quella che si potrebbe definire una “grande narrazione” che informava e avvolgeva tutto, dal comportamento degli stati alla letteratura e all’arte, al modo in cui le persone comprendevano se stesse. Era legata agli ideali illuministi di “progresso” e “liberazione”, in cui fatti e prove erano qualcosa da rispettare, confermare o confutare da argomentazioni razionali o prove verificabili. Persino il regime sovietico era chiuso in un linguaggio e una visione del mondo in cui i diritti - i diritti dei popoli colonizzati e principalmente degli oppressi economicamente - potevano almeno avere importanza teorica. Hanno persino firmato impegni sui diritti umani, che hanno permesso ai dissidenti sovietici di chiedere ai leader del Cremlino di «obbedire alle proprie leggi».

In questa gara di grandi idee, in cui ogni parte proclamava i propri ideali come superiori, si è aperto lo spazio per i dissidenti per chiedere che i poteri fossero all’altezza degli ideali; in periferia questi ideali venivano invocati per chiedere il sostegno dei movimenti di liberazione, colonizzati da un campo o dall’altro.

Crimini impuniti

Le grandi narrazioni, ovviamente, avevano i loro problemi. Spesso privilegiavano le vittime di ideologie rivali, tralasciando punti ciechi della dimensione di continenti. I sacerdoti assassinati in Polonia dai comunisti ricevevano più attenzione dai media occidentali rispetto ai sacerdoti uccisi dagli alleati degli Stati Uniti in El Salvador. La repressione da parte dell’Armata Rossa delle ribellioni a Budapest e Praga è stata seguita con infinitamente più intensità della repressione britannica delle ribellioni anticoloniali in Kenya.

Eppure «gli assegni emessi nel 1945 alle persone più vulnerabili del mondo - contrassegnati dal “diritto umanitario internazionale” - ora sono scoperti», afferma David Miliband, l’ex ministro degli Esteri britannico e attuale capo dell’International Rescue Committee. Siamo entrati in quella che Miliband chiama l’era dell’impunità: «Un’epoca in cui militari, milizie e mercenari nei conflitti in tutto il mondo credono di poter farla franca con qualunque cosa, e poiché riescono a farla franca con qualsiasi cosa, fanno tutto».

Il crollo è venuto in parte dall’interno. Il linguaggio dei diritti e delle libertà è stato svuotato dai leader che ne hanno fatto un uso improprio, lasciando i gusci privi di significato. Il regime sovietico ha distrutto il linguaggio della giustizia economica e dell’uguaglianza, così che ancora oggi soltanto pronunciare la parola “socialista” è un anatema per molti nell’ex blocco comunista. In occidente l’alto linguaggio della libertà e della tirannia è stato impiegato al servizio di guerre non dichiarate e macchiato dalle inevitabili conseguenze della guerra. Nel 2003, il presidente George W. Bush aveva deliberatamente collegato le battaglie della guerra fredda con la sua visione del medio oriente prima dell’invasione statunitense dell’Iraq, promettendo che «la democrazia avrà successo» e «la libertà può essere il futuro di ogni nazione». 

L’invasione invece ha portato la guerra civile e centinaia di migliaia di morti; ha rafforzato il potere dell’Iran e ha trasformato la Siria nel fulcro di un nuovo asse autoritario. Ha generato cinismo tra le persone delle democrazie ricche, rendendole aspre nel compiacimento della propria autocoscienza. Parole intrise di un significato potente a Berlino Est e a Praga hanno perso la loro efficacia a Baghdad. Anche le immagini lo hanno fatto.

Insieme a questa decomposizione dall’interno, c’è stato l’attacco dall’esterno. Il grande leitmotiv della propaganda russa contemporanea, e ora anche di quella cinese, è che il desiderio di libertà e la lotta per i diritti non portano alla prosperità, ma alla miseria e allo spargimento di sangue. I canali della propaganda russa amano unire le immagini di insurrezioni popolari in Siria o in Ucraina con le immagini dei conflitti in quei paesi che ne conseguono, come se la guerra fosse il prodotto inevitabile delle rivolte, invece della risposta delle dittature per schiacciarle. A differenza della democrazia - questo è il messaggio che passa in modo neanche troppo sottile - la dittatura è forte e stabile.

Storia che unisce

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Quest’anno il Premio Nobel per la pace è stato vinto da due giornalisti: Maria Ressa, direttrice di Rappler, nelle Filippine, e Dmitri Muratov, direttore di Novaja Gazeta, dalla Russia. Se osserviamo la loro opera da vicino, ci accorgiamo di un aspetto interessante.

La situazione complicata di Maria Ressa avrebbe potuto essere del tutto esotica per il mondo. È una giornalista sotto attacco da parte del governo filippino per aver criticato gli omicidi extragiudiziali commessi durante la presidenza di Rodrigo Duterte. I giornalisti sono attaccati ogni giorno in tutto il mondo e nelle Filippine vengono regolarmente uccisi senza destare molta attenzione all’estero. Anche gli omicidi di massa di cui ha riferito Maria Ressa (che fa parte del consiglio di amministrazione di Coda Story), con migliaia di uccisi da bande filo-governative, raramente meritano un titolo globale. Eppure la storia di Maria ha tenuto l’attenzione desta. Come è riuscita?

Scavando intorno a quello che le stava succedendo, Maria ha visto che c’era qualcosa nella forma degli attacchi di Duterte, l’uso di eserciti di troll e di cybermilizie per intimidire, infangare e spezzare gli avversari, che era allo stesso tempo nuovo e universale. Non imponeva soltanto la censura, sovraccaricava i social media di rumore, così che la verità era cancellata, la realtà distorta. Maria ha sollevato il problema non solo sulle Filippine, ma anche su Facebook, i danni dei social media, l’assenza di legge della disinformazione digitale. La sua campagna e il modo in cui ha raccontato la sua storia, hanno portato non solo al Palazzo Presidenziale di Manila, ma anche alla Silicon Valley, a ogni elezione distorta dalla manipolazione online, a ogni conflitto alimentato da campagne di odio digitale, a ogni donna o minoranza vittima di bullismo o molestato sui social media, a qualsiasi genitore preoccupato per quello che sta succedendo ai propri figli online. La sua storia è diventata vitale per qualsiasi legislatore e funzionario che pensi a come regolamentare questa nuova frontiera. Ha aggiornato il modo in cui pensiamo alla libertà di espressione nella dimensione digitale, costringendo le aziende tecnologiche ad ammettere almeno che le campagne coordinate non autentiche non erano un discorso legittimo ma una forma di censura. Una persona reale che dice una cosa spiacevole va bene. Ma quando una manciata di troll finge di essere migliaia di persone inesistenti che dicono la stessa cosa, è una cosa diversa.

E la ricerca di Maria ha unito paesi che non sono mai stati messi nella stessa sequenza. Nessuno ha mai pensato a Russia e Filippine insieme. I loro dissidenti non si incontrano. Erano su fronti diversi durante la guerra fredda. Ma ora queste due capitali della manipolazione online sono diventate parte di una storia coerente. Maria ha letto le indagini dei giornalisti russi per capire cosa stesse succedendo nel suo paese, ha iniziato a vedere la Russia e le Filippine come una prima linea dell’autoritarismo digitale.

E la Russia è stata uno dei luoghi di nascita di un’altra questione apparentemente locale che è diventata una narrativa globale. Quando attivisti e giornalisti russi cercarono per la prima volta di raccontare al mondo, all’inizio dell’èra Putin, di come il loro regime fosse basato sul furto di denaro dai beni statali e sul riciclaggio nei paesi occidentali, la maggior parte alzò le spalle. Che importa? Magari è un male per la Russia, ma ha reso Londra e New York più ricche e il Cremlino più debole. Ci sono voluti dieci anni di discussioni lente e dolorose e di raccolta di prove per dimostrare che la corruzione in Russia e Africa, Asia centrale e nel medio oriente non era solo una tragedia locale. Riguardava anche noi. Era anche un modo per infiltrarsi e minare le democrazie, compromettere la nostra politica estera, insidiare i politici, finanziare la politica di estrema destra. Ha creato un’élite che ha usato l’influenza e la leva per iniziare guerre e farla franca, perché i paesi occidentali ora dipendevano dagli investimenti corrotti. Stava creando un mondo in cui i ricchi globali vivevano con un altro insieme di regole, liberi dalla giustizia interna ovunque, e questo, a sua volta, stava alimentando la disuguaglianza e la rabbia che minava la fede delle persone nelle istituzioni democratiche. E il nemico non era solo al Cremlino, ma anche tra gli intermediari e i riciclatori di denaro nei rispettabili uffici di New York e Londra.

Non è stato facile provare che la tragedia di un ospedale nel nord della Russia, saccheggiato da burocrati che acquistano proprietà a Londra, era qualcosa di cui anche chi sta al Pentagono dovrebbe preoccuparsi. Oggi la corruzione (o per essere più precisi la cleptocrazia e il riciclaggio di denaro) è diventata un’agenda di sicurezza centrale per la nuova amministrazione statunitense. Ma ci sono voluti anni di lavoro per portare alla luce i legami che giacciono sepolti sotto il rumore delle notizie e lo sguardo narcisistico dei social media, e per rendere qualcosa di apparentemente tangenziale una storia che attraversa tutte le nostre vite.

Nuova missione

APN

Quindi ecco il compito: portare alla luce i fili interconnessi dei problemi, le radici intrecciate dei problemi che attraversano il mondo più intensamente che mai e il cui significato più ampio deve ancora essere scoperto. Un tempo la grande narrazione democratica sovrastava tutto, come un aereo su cui potevi salire a bordo da una piattaforma chiamata “diritti umani”. Ora lavoriamo con i badili. Insistendo su un tumulo che sembra solo un’anomalia in un angolo del giardino, ma scavando e tirando, i suoi rizomi ci conducono al giardino accanto.

Questa è una nuova missione per il giornalismo. Per capire perché un problema a Manila riguarda anche la Silicon Valley, Mosca e te. Per trovare l’intersezione improvvisa tra paesi che nessuno aveva mai pensato prima come parte di un’unica mappa. Poiché queste nuove linee sono lì, non hanno bisogno di essere create, hanno bisogno di essere portate alla luce. E poi un evento discreto può avere un significato per molti, un articolo di giornale può risuonare oltre confine. Nuovi pubblici, che non hanno mai pensato di avere qualcosa in comune, possono trovarsi insieme. E questo nuovo giornalismo deve fare di più che tracciare nuove linee e connettere nuovo pubblico: ha bisogno di scavare i contorni della discussione che offre la soluzione ai problemi che porta alla luce, offrendo al suo pubblico la possibilità di trasformarsi da attori passivi a partecipanti della formulazione di un futuro.

Perché anche se la vecchia storia di “ondate di democratizzazione”, di “dichiarazioni dei diritti umani” facilmente definibili e facilmente identificabili sia svanita, c’è ancora chi rischia la vita e il proprio sostentamento per protestare e lottare per… beh, per cosa? Negli ultimi anni ci sono state più proteste nel mondo di quanto ce ne siano state in qualsiasi altro momento per decenni. Da Hong Kong a Tbilisi, dal Sudan al Cile. E, naturalmente, in Bielorussia. La Bielorussia che è stata sempre liquidata come felice del suo dittatore degenerato, soddisfatta del compromesso tra stabilità e governo di un solo uomo. Poi all’improvviso, impossibile, l’intero paese si sollevò. Non solo liberali urbani, ma pensionati e operai.

Ma a differenza del 1989, non pensiamo a tutte queste proteste in tutto il mondo insieme. Non le vediamo come parte di una storia inevitabile e coerente. I diritti che chiedono sono molto diversi. I regimi contro cui combattono non rispettano necessariamente le vecchie distinzioni tra democrazie e dittature. Eppure qualcosa prude ancora alle persone. Una sorta di impulso di fondo, un bisogno che non può essere soddisfatto. Cosa collega tutti questi diversi movimenti? Cosa troveremo nel nostro processo di scavo? Forse, nascosto sotto c’è qualcosa di coerente, fili che insieme conducono a un tutto, qualcosa di vivo, enorme, che ricorda tutto, globale, terribile - che si prepara a fornire epici scrigni di prove, terabyte di dati che registrano crimini contro l’umanità e abusi, uno scopo e un significato.


Questo articolo ha vinto lo European Press Prize 2022 nella sezione “discorso pubblico”. La sua ripubblicazione è stata concessa dallo European Press Prize. È stato distribuito da Voxeurop syndication. Visita europeanpressprize.com per scoprire gli altri articoli premiati e scoprire il meglio del giornalismo europeo. 

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