Il nuovo numero di Scenari, la pubblicazione geopolitica di Domani, è questa settimana dedicato allo scontro geopolitico nell’Artico, in un mondo che si sposta verso nord. In venti pagine, gli approfondimenti inediti firmati da Giorgio Cuzzelli, Fiammetta Borgia, Agata Lavorio, Andrea Restaldi, Lorenzo Trapassi e altri esperti e studiosi – e le mappe di Luca Mazzali e Daniele Dapiaggi (faseduestudio/Appears) – analizzano le tensioni geopolitiche nella regione polare, uno spazio storicamente conteso tra le grandi potenze.

Cosa c’è nel nuovo numero

La giurista Fiammetta Borgia ripercorre le vecchie e le nuove tensioni nell’area – Russia e Gran Bretagna, Russia e Stati Uniti – tra rivendicazioni di sovranità e una crescente militarizzazione. Nella regione, fino a pochi mesi fa, sembrava prevalere una spinta collaborativa, nonostante gli interessi contrastanti. Ma, come spiega Borgia, a partire dall’invasione russa dell’Ucraina del febbraio scorso, gli altri sette stati membri del Consiglio artico hanno deciso di sospendere temporaneamente la loro partecipazione alle riunioni del foro intergovernativo, di cui Mosca ha attualmente la presidenza. Una decisione che, però, porta con sé diversi interrogativi. 

La guerra in Ucraina, come spiega il giornalista John Last in un articolo pubblicato dalla rivista Foreign Policy, ha creato una spaccatura anche tra i popoli indigeni dell’Artico: a causa delle pressioni delle grandi potenze, tra i Sami della Russia e quelli dei paesi del nord Europa si sono indeboliti i legami di solidarietà. Le stesse frizioni si osservano all’interno del gruppo russo, dove si oppongono filoputiniani e dissidenti, che cercano protezione dall’occidente. 

«Dopo decenni di sensibilizzazione e collaborazione transfrontaliera sami, la cortina di ferro è calata ancora una volta», scrive Last, sottolineando che i sami russi sono preoccupati di rimanere isolati dal resto della Lapponia.

L’Artico è poi il fronte più fragile e più scoperto della crisi climatica. Ferdinando Cotugno spiega come i posti più freddi della terra siano quelli che si stanno riscaldando più in fretta, perché la sensitività ai cambiamenti climatici di queste aree è più alta. E la febbre artica è peggiore di quanto si pensasse, scrive Cotugno, in base a nuovi dati pubblicati dall’Istituto finlandese di meteorologia.

(AP Photo/Felipe Dana, File)

La regione è il punto più vicino tra Russia e Stati Uniti e il luogo in cui la Cina ha costruito il ramo settentrionale della nuova Via della seta. La ricercatrice Agata Lavorio percorre le tappe della fine delle illusioni di pace nell’area: «Oggi più che mai, all’ombra di una guerra in Europa e di una crisi climatica sempre più devastante, l’èra dell’Artico come terra libera di scienziati ed esperimento di governance sembrano relegati alle grandi illusioni degli anni Novanta», scrive. 

Ma, come spiega l’analista Andrea Restaldi, i costi proibitivi per lo sfruttamento delle ricchezze e delle rotte portano a ridimensionare il potere della Russia nell’accaparramento delle risorse inesplorate. Si trovano soprattutto in mare aperto e l’estrazione richiede non solo tecnologie d’avanguardia, ma potrebbe anche provocare danni ambientali disastrosi. Dopo l’invasione del 24 febbraio, però, la militarizzazione potrebbe mettere in pericolo la stabilità della regione.

Il generale Giorgio Cuzzelli ricorda, inoltre, che sarebbe un errore strategico sbilanciare l’interesse e l’attenzione della Nato a nord. La riduzione della calotta artica dovuta al riscaldamento globale produce sì nuove implicazioni – aprendo vie di comunicazione, che tolgono importanza all’Atlantico, per la maggior parte sotto il controllo di Mosca – ma ciò non deve portare a dimenticare le sfide che agitano il sud, dal terrorismo ai flussi migratori, «pericoli altrettanto esistenziali per l’occidente», scrive Cuzzelli.

Anche i rapporti tra gli stati all’interno dell’Alleanza atlantica sono cambiati nel tempo. Il diplomatico Lorenzo Trapassi spiega come il rapporto tra Washington e Berlino sia l’asse fondamentale per la tenuta dell’ordine liberale in Europa. Ma dagli inizi della Guerra fredda l’alleanza si è indebolita e, dopo la scomparsa dell’Unione sovietica, la distanza è emersa soprattutto nella gestione della forza armata e nella visione stessa della Nato. 

Copyright 2021 The Associated Press. All rights reserved

Al contrario, all’interno dell’Alleanza, nonostante la Brexit, non è stato indebolito il ruolo di grande potenza militare del Regno Unito, che – come spiega il professore Lorenzo Cladi – è uno degli stati più importanti e influenti all’interno della Nato. Nel paese sono infatti presenti importanti strutture militari utilizzate dall’alleanza e risulta, tra gli stati europei, essere stato «molto impegnato in ciascuna delle più importanti missioni militari condotte dalla Nato dalla fine della Guerra fredda, in particolar modo in Bosnia, Kosovo, Afghanistan e Libia», scrive Cladi.

Il ricercatore Thomas Van Der Hallen suggerisce poi di studiare il deterioramento dei rapporti tra la Russia e gli Stati Uniti – iniziato già prima della guerra in Ucraina – e il permanere dell’antagonismo anche dopo la scomparsa dell’Urss con una prospettiva geostrategica di lungo termine, «perché la cosiddetta politica di “contenimento” della Russia, che è generalmente associata alla “dottrina Truman”, non era una novità nel 1947», spiega Van Der Hallen. Una politica che diventò lotta al «contagio comunista». Oggi, invece, si può parlare di “nuova Guerra fredda”?

L’articolo del ricercatore Peter Pomerantsev – vincitore dello European Press Prize 2022 nella sezione “discorso pubblico” – mette poi l’accento sulla narrazione portata oggi avanti dai media: con la scomparsa degli ideali è iniziata l’èra dell’impunità. È diventato più immediato mostrare le violazioni dei diritti umani ma la reazione da parte della società e della comunità internazionale era diversa. L’esistenza di una “grande narrazione” globale teneva alta l’attenzione.

Infine, gli scenari internazionali hanno una ricaduta locale: il politologo Arturo Varvelli analizza il dilemma di fronte cui si troverà un nuovo possibile governo di centrodestra, in vista delle elezioni del 25 settembre: normalizzare la propria linea politica negli ambiti dell’atlantismo e dell’europeismo o giocare ancora il ruolo di “outsider”. «L’impressione è che la rapidità dei mutamenti globali non trovi il partito di Meloni completamente preparato», scrive Varvelli.

© Riproduzione riservata