Con il nuovo millennio Recep Erdogan non giunge al potere provenendo dal nulla, spinto da eventi esterni. Prima dell’avvento dell’Akp c’è stata una lunga storia di tentativi falliti, nel tentativo di saldare l’eredità islamica al nazionalismo laico di Atatürk, il salvatore della Turchia moderna. Prima di Erdogan in vari modi Menderes, Ozal, Erbakan ma anche le confraternite e lo stesso esercito avevano tentato approcci diversi utilizzando vari collanti: populismo, liberismo, elementi socialdemocratici. I partner della Turchia si sono accorti tardi che il tema “islam” era da decenni al centro del dibattito politico turco, spesso celato sotto altri termini.

Erdogan è diventato il leader politico più importante della storia moderna turca con il fondatore Atatürk, ma il merito va anche a chi prima di lui aveva già tentato. Oggi il leader turco è considerato un trasformista che si adatta a ogni cambiamento geopolitico. Si tratta di un’analisi incompleta che non fa giustizia né delle gigantesche sfide che il presidente turco si è trovato ad affrontare, né del quadro caotico nel quale ha dovuto operare. Più che islamista o trasformista, Erdogan è un nazionalista musulmano (o sovranista islamico) che consacra la priorità all’interesse nazionale turco. Ogni qualvolta deve prendere una decisione strategica, il leader si posiziona all’incrocio esatto tra due opzioni possibili per non rimanere sorpreso, sfruttando appieno le opportunità che la posizione “mediana” della Turchia gli offre: in bilico tra Europa e medio oriente, Nato e Russia, umma islamica e Occidente, nel Mediterraneo e tra Cina ed Europa o tra Eurasia e Africa.

Verso la modernizzazione

Nelle elezioni che consacrano la sua vittoria, l’Akp ha la possibilità di fare il governo da solo. Contano per la vittoria il voto di protesta, le ambiguità del Chp sull’Europa, le accuse di corruzione, la perdita di autorevolezza dell’esercito. Ma Erdogan era riuscito a saldare assieme l’elettorato conservatore rurale, il mondo imprenditoriale privato e la classe media urbana. L’idea dell’Akp era libertà d’iniziativa privata e non più solo economia protetta statale. A differenza di Erbakan, Erdogan e i suoi evitarono di porre l’accento sull’islam. L’Akp si presentava sotto due forme: una specie di “democrazia musulmana” che accettava la laicità dello stato oppure un partito post-islamico alla ricerca di un’identità moderna. Il neo premier approfittò della ripresa economica, già nell’aria, che cavalcò abilmente con una politica di privatizzazioni e flessibilità del mercato del lavoro.

Giunsero così finanziamenti dall’estero, in primis quelli dall’area dei paesi del Golfo con cui Abdullah Gul, uno dei maggiori alleati del premier, aveva intessuto buoni rapporti da anni. A essi seguirono altri, in specie dall’Occidente. Il programma di modernizzazione si mise in marcia con l’avvento della globalizzazione e la Turchia stava divenendo il paese su cui scommettere. Per non commettere gli errori del neoliberismo di Ozal, Erdogan aggiunse anche diverse iniziative di welfare, aumentando i salari del pubblico impiego, con grandi opere infrastrutturali per dare lavoro e creando progressivamente un welfare nazionale. La Turchia decollò.

Contro i militari

Sul fronte europeo furono aperti negoziati con l’Unione europea con l’impegno a democraticizzare la società. Per Erdogan ciò significava aver trovato una linea politica che potesse mettere all’angolo i militari: adottare le regole europee metteva fuori gioco l’esercito. Negli anni successivi ciò permise all’Akp di rappresentare anche quella parte di elettorato favorevole alla democrazia occidentale. I buoni rapporti che Erdogan strinse con i leader europei gli furono utili per far uscire dall’isolamento il paese. In seguito una cosa simile avvenne nella sua relazione con il leader russo Putin. Il premier si rivelò dotato di buon talento nelle relazioni diplomatiche e personali che gli permisero di costruire la nuova immagine della Turchia.

Fu così che Erdogan distrusse l’influenza dell’esercito, riducendo il consiglio di sicurezza ad0 organo consultivo. Le riforme richieste dall’Unione europea servirono al premier per espellere i militari dagli organi decisionali. In economia il leader turco adottò sostanzialmente la dottrina social-liberal del blairismo e della terza via di Bill Clinton. Secondo Federico Donelli, il tentativo di Erdogan nel primo decennio del suo potere fu «quello di trasformare l’ideologia dominante della destra turca, la sintesi turco-islamica, in una versione di liberalismo islamico».

Segnali diversi

Tuttavia alcuni segnali dimostravano che Erdogan non rinunciava al suo islamo-nazionalismo: già nel 2003 rispondeva negativamente alla richiesta degli Stati Uniti di utilizzare le basi Nato turche per la guerra in Iraq. La sua popolarità nel mondo arabo fece un balzo. Nel 2005 la Turchia si fece promotrice all’Onu dell’Alleanza delle civiltà, assieme a Spagna e Finlandia: un’azione in favore del dialogo tra le grandi religioni contro l’ideologia dello scontro tra civiltà allora in voga. L’ideatore di tale proposta fu Ahmet Davotoglu, un professore di relazioni internazionali che Erdogan nominò ministro degli esteri dal 2009 al 2014 e poi premier dal 2014 al 2016.

Ergenekon e Gezi park

La ripresa economica è stata la vera ragione del successo della prima fase del governo di Erdogan, che gli ha consentito di crearsi l’ampio consenso attuale. È nel 2006-2007 che il clima politico iniziò a cambiare. Da una parte i negoziati con l’Unione europea si incagliarono nell’irrisolta questione di Cipro nord e sul genocidio armeno. Erano anni di omicidi “eccellenti” come, quello di don Andrea Santoro nel 2006 o dello scrittore Hrant Dink nel 2007. Il premier riuscì anche a far eleggere dal parlamento il fedele Abdullah Gul come presidente della Repubblica, non senza il ricorso alle elezioni anticipate che l’Akp vinse a man bassa. Con l’aiuto della confraternita di Gülen, ormai molto presente anche tra i magistrati, poté aprire il caso “Ergenekon”: una specie di “caso gladio” alla turca con servizi deviati, in cui furono coinvolti molti quadri ultranazionalisti laici e militari. Numerosi ufficiali vennero arrestati e condannati e il colpo per l’esercito fu durissimo. Con il referendum costituzionale del 2010 i poteri dell’esercito furono emendati e scomparvero. In politica estera fu abbandonata la dottrina “zero problemi con i vicini” (vedi gli ottimi rapporti con Assad fino al 2010), virando verso l’ambiziosa tesi di soft power da media potenza che gioca a tutto campo: il neo-ottomanesimo ispirato da Davutoglu.

Ankara iniziò una politica multidirezionale favorita anche dalle primavere arabe del 2011. Nel 2010 ci furono i fatti della Mavi Marmara, l’imbarcazione della “flottilla” turca attaccata dagli israeliani mentre cercava di violare l’embargo di Gaza. Le nove vittime e la rottura diplomatica con Israele prefiguravano il cambiamento di rotta.

La vittoria eclatante alle elezioni del 2011 (49,8 per cento) segnò l’apice dell’alleanza con il movimento di Gülen. Erdogan voleva la messa al passo anche della magistratura in cui Hizmet era molto presente. A rompere l’idillio furono le manifestazioni di Gezi park del 2013 a Istanbul. Il pretesto era l’idea del premier di edificarvi una moschea ma la repressione fece 11 morti e rivelò un altro volto del leader.

Fetullah Gülen aveva già criticato il leader per la rottura con Israele e l’utilizzo della retorica antisionista da parte dell’Akp. Adepto del dialogo interreligioso e dell’islam civile e liberale, Gülen non approvò la svolta neo-ottomana né la repressione che fece criticare dai media controllati. Per ritorsione Erdogan chiuse le scuole universitarie Güleniste. Alla fine di quell’anno Gülen tentò l’offensiva della tangentopoli turca: magistrati a lui vicini incriminarono circa 50 fedeli del premier con accuse di frode, corruzione e riciclaggio. Anche il figlio del leader fu preso di mira: la rottura fu definitiva.

Ma Erdogan non mollò e reagì accelerando: alle presidenziali del 2014 (il sistema era divenuto presidenziale con il referendum del 2010) vinse al primo turno, grazie alla sua enorme popolarità (il Pil quadruplicò dal 2003 al 2014). Ormai non c’erano più ostacoli e il suo consenso era forte: ciò gli ha permesso di resistere anche nel momento più difficile del tentativo di colpo di stato del 2016, quando nella notte molta gente scese in piazza in sua difesa spontaneamente e senza organizzazione.

Era il segnale che la sua politica aveva colto nel segno: la nuova Turchia aveva un secondo padre. Con Gülen e i suoi avversari la resa dei conti era giunta e la nascita del sovranismo islamico compiuta. All’Occidente non restava che prenderne atto.

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