La cosiddetta epoca neoliberale è tramontata. In modo violento e caotico, senza un chiaro percorso davanti, anzi, una strada che si divide tra possibilità molto diverse anche dall’egemonia keynesiana. Ne è convinto Gary Gerstle, docente di storia all’università di Cambridge e studioso delle trasformazioni della società americana.

Dopo aver pubblicato nel 1990 un libro intitolato The rise and fall of the New Deal order, riguardante le trasformazioni economiche e politiche imposte dall’epoca reaganiana, quest’anno ha pubblicato un nuovo saggio intitolato The rise and fall of the neoliberal order, dedicato appunto alla fine di un’epoca in cui il neoliberismo economico ha avuto un’egemonia trasversale, conquistando anche l’animo del partito democratico dell’età clintoniana. Non a caso fu proprio Bill Clinton a pronunciare: «L’èra dello Big government è finita». Gerstle ha individuato la caduta del vecchio sistema, che contava di durare per decenni, in alcune tappe della storia degli anni Duemila.

Professore, quando è crollato l’antico ordine neoliberale? Nemmeno l’11 settembre era riuscito a scuoterlo più di tanto.

Giustissimo. Ritengo che a dare una prima scossa sia stata la guerra in Iraq del 2003. Gli Stati Uniti non solo commisero un grande errore di politica estera e di scarsa conoscenza del paese. Arrivarono per ricostruire un paese che nei quarant’anni precedenti aveva funzionato come uno stato socialista-dirigista sul modello sovietico, ma la ricostruzione venne implementata applicando il principio neoliberale, affidando molte commesse a contractor privati, rimuovendo ogni vestigia statalista in Iraq. Questo shock rese il processo estremamente difficile e destabilizzò il paese facendo iniziare la guerra civile. Il presidente George W. Bush bruciò in quella guerra il suo enorme patrimonio di popolarità successivo all’11 settembre. E vennero messe in discussione anche le politiche neoliberali che avevano guidato il dopoguerra. Nel 2006-2007 si arrivò quindi alla crisi dei mutui che mostrò come quel sistema non funzionasse nemmeno in patria. E cominciò quindi a fratturarsi, per una combinazione della guerra e degli effetti della crisi dei mutui subprime.

Lei ha scritto che il crollo dell’ordine keynesiano del New Deal è stato «il frutto di un assalto pianificato da parte di alcune forze conservatrici nella società e nella politica americana». Chi è stato invece ad abbattere il sistema neoliberale?

Il neoliberismo è stato attaccato da due lati: da un lato dalla destra populista, dall’altro da una rinvigorita sinistra populista. I primi hanno preso la forma del Tea Party che sotto la forma della richiesta di più liberismo economico in realtà nascondevano un risentimento antisistema forte, che vedeva l’eliminazione delle barriere commerciali come una scusa delle élite per implementare un’agenda localizzatrice.

Nel biennio 2010-2011 viene reso popolare il termine “globalista” come spregiativo per definire i neoliberali, soprattutto quelli provenienti dalle fila dei democratici. Non volevano né la libera circolazione delle merci né delle persone. Volevano preservare il sistema per gli americani “giusti”, ovvero quelli di discendenza europea, e ribellarsi a questo andazzo che dava valore solo all’economia e non al valore e al carattere. Questa ideologia non trovò subito il suo leader, ma nel 2015 arrivò Donald Trump che la incarnava perfettamente.

Parallelamente c’è stato il percorso della sinistra progressista, rifiorita nelle proteste di Zuccotti park a New York, che hanno visto la nascita del movimento Occupy Wall Street nel settembre 2011. Qui il focus era sull’1 per cento dei più ricchi che sfruttava il resto della popolazione e precarizzava le vite senza sanità pubblica e senza diritti. Una nascita più caotica dalla quale però sono venuti altri movimenti come Black lives matter. Da queste proteste viene anche la senatrice Elizabeth Warren, ma il maggiore rappresentante di questo movimento è diventato il senatore Bernie Sanders, che era al Congresso dal 1991 senza aver mai contato granché. Da quel momento è diventato uno degli attori più importanti della sinistra americana.

Di sicuro Trump e Sanders non si amano affatto, anzi, si detestano profondamente. Però hanno qualcosa in comune.

A quali aspetti si riferisce?

Ricordo un discorso di Donald Trump durante la campagna presidenziale del 2016. Era di fronte a un’acciaieria in Pennsylvania, a Pittsburgh. Diceva che quell’impianto apparteneva agli operai cui si stava rivolgendo e non alle élite o alle banche. Che bisognava abbandonare il libero scambio che aveva portato via il lavoro. Un testo che avrebbe potuto benissimo sottoscrivere anche Bernie Sanders. Quindi in un certo senso le loro retoriche sono sovrapponibili.

La differenza tra i due partiti però c’è. Se l’establishment repubblicano è collassato, conquistato dal trumpismo, i democratici non sono diventati il partito socialista di Sanders. Come mai il Gop ha ceduto più rapidamente?

In realtà il partito repubblicano ha subìto molti tentativi di conquista simili, sin da quando negli anni Sessanta il senatore dell’Arizona Barry Goldwater tentò di spostarlo a destra. All’epoca non funzionò perché fu sconfitto pesantemente alle presidenziali. Però a partire degli anni Novanta questo assalto arrivò dal basso. Il partito repubblicano del dopo Guerra fredda si trovò in piena crisi esistenziale, per questo sostituì nel suo immaginario le guerre culturali al posto della Guerra fredda. La difesa dei valori americani prese il posto della difesa della democrazia contro il totalitarismo sovietico. Questo però ha significato una polarizzazione crescente nei confronti degli avversari democratici. Arrivati al momento dell’ascesa di Trump, dopo che George W. Bush era riuscito a domare la destra radicale interna, l’establishment pensò di fare un patto con Satana. In questo caso però è stato il diavolo a non aver più bisogno di loro.

Il partito repubblicano, pur essendo cambiato rispetto all’età reaganiana, continua ad attuare politiche favorevoli al business, pur se non strettamente neoliberiste. Quindi è solo una narrazione di facciata?

Ci sono delle ragioni per essere scettici: non ultima la chiara volontà trumpiana di pensare agli affari suoi, come emerso dalle audizioni al Congresso, dove si è appurato che i soldi che chiedeva ai suoi supporter per “difendere l’integrità del voto” in realtà sono serviti a pagare le sue spese. Altri esponenti, come il governatore della Florida Ron DeSantis, sembra più serio nel voler regolamentare il potere delle grandi corporation del Big tech, in modo simile a quanto fatto nel 1911 da Teddy Roosevelt con la Standard oil di Rockefeller.

Non ci deve stupire però: molti repubblicani hanno creduto all’uso della mano pubblica, come nel caso di Richard Nixon: è stato il presidente che ha costituito l’Agenzia per la protezione dell’ambiente e ha nazionalizzato il trasporto ferroviario di passeggeri con l’istituzione di Amtrak nel 1971. Non dimentichiamo poi che le quattro libertà del neoliberismo, ovvero la libertà di muovere attraverso i confini nazionali il capitale finanziario, l’informazione, le persone e le merci non sono condivise da vasti settori del movimento repubblicano, mostrando come sia entrato in una nuova èra ideologica.

Dopo l’egemonia del New Deal e del neoliberismo, c’è un elemento che possiamo utilizzare per definire il momento presente?

Ancora no. Credo però ci siano tre strade di fronte a noi: un modello etno-nazionalista di stato autoritario costruito sugli esempi dell’Ungheria di Orbán, della Turchia di Erdogan o della Russia di Putin. Una nuova egemonia progressista, simile al primo semestre di Joe Biden o alla Spagna di Pedro Sánchez, con una nuova politica economica e un nuovo welfare diffuso.

Nella terza strada, non accadrà niente di tutto questo, e avremo un continuo periodo di caos. Credo che questa ipotesi sia la più probabile, date le debolezze degli altri due modelli attualmente in ascesa.

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