Il tempo è il secondo miglior alleato di Vladimir Putin, il primo è l’Occidente che non riesce a trovare un accordo sull’unico punto davvero pericoloso per l’economia russa: le sanzioni al settore energetico. Il problema ormai si chiama Germania: ieri il bollettino mensile della Bundesbank, l’influente banca centrale tedesca, ha complicato ogni possibilità di un embargo prima al petrolio e poi al gas russo.

Se ne parlava da giorni, le istituzioni dell’Unione europea ormai si erano determinate a procedere almeno con il blocco del petrolio russo, ma adesso la banca centrale guidata da Joachim Nagel dice che fermare le importazioni di energia russa sarebbe un disastro epocale per la Germania: perdita di 5 punti di Pil nel 2022, di 3,5 nel 2023, razionamento di gas e petrolio, con il greggio sopra i 170 dollari al barile, inflazione fuori controllo, la peggiore catastrofe economica dal 1945.

Da settimane molti economisti in tutto il mondo fanno simulazioni su quegli scenari e nessuno è arrivato a conclusioni così pessimistiche: il paper più citato, che coinvolge economisti di nove università diverse, stima un impatto negativo sul Pil tra lo 0,3 e il 3 per cento, a seconda delle ipotesi di partenza.

Poiché la Bundesbank non ha modelli migliori o informazioni privilegiate, è chiaro che ha voluto dare un messaggio politico, cioè rafforzare la posizione del cancelliere Olaf Scholz che si oppone a misure europee troppo drastiche  sull’energia che colpirebbero il paese che più di ogni altro ha scommesso sulla dipendenza da Vladimir Putin, cioè la Germania.

La paralisi dell’Europa

Come spesso accade in Europa, le dinamiche di consenso interne alla Germania paralizzano l’azione congiunta: l’idea del premier italiano Mario Draghi, di costruire un “cartello” dei compratori per fissare un prezzo unico e più conveniente al gas russo viene apertamente osteggiata dalla Repubblica ceca, che si prepara a subentrare alla Francia come presidente di turno a luglio, con la bizzarra motivazione che i cechi conoscono bene i danni dell’economia pianificata.

Ad oggi il petrolio garantisce alla Russia tra i 500 e gli 800 milioni di dollari di ricavi al giorno, cruciali per finanziare la guerra in Ucraina, nel complesso tra il 15 e il 20 per cento del Pil russo. E sostituire il petrolio è molto più facile che sostituire il gas, perché il petrolio ha un mercato globale: l’embargo deciso dagli Stati Uniti ha già portato a un crollo del prezzo del greggio di origine russa di circa 35 dollari al barile.  Ma l’Europa non ha seguito.

Tagliare completamente fuori la Russia significherebbe trovare altri 5 miliardi di barile al giorno, arduo ma non impossibile, tra Iran, Venezuela (oggi sotto sanzioni) e produzione aggiuntiva dell’Opec, il cartello dei produttori.

Anche gli Stati Uniti possono aumentare la produzione di shale oil estratto dalle rocce, perché meno petrolio russo c’è in circolazione più alto è il prezzo di quello di altra origine (Brent).

Molti paesi, come la Polonia, si stanno già muovendo per rinunciare al petrolio russo da fine anno, ma nell’immediato basterebbe smettere di pagarlo o pagarlo su conti vincolati a cui far accedere le controparti russe solo al momento della cessazione delle ostilità.

Putin potrebbe certo sospendere le forniture, ma non sarebbe così semplice perché poi dovrebbe vendere il petrolio a qualcun altro (la Cina) e a un forte sconto sul prezzo. Potrebbe anche fare causa, ma sarebbe questione di anni.

Il problema è che il più grande importatore di petrolio russo in Europa è la Germania, che acquista da Putin il 35 per cento del suo greggio. E quindi non se ne fa niente.

Così, però, la guerra e l’alto costo delle materie prime energetiche spingono un’inflazione che già correva da prima dell’invasione dell’Ucraina per il combinato delle politiche di stimolo all’economia post-Covid e di quelle per la transizione ecologica che stavano rendendo le fonti fossili più costose.

Il risultato è che ora la banca centrale americana, la Federal Reserve, potrebbe essere costretta a recuperare il tempo perduto negli ultimi due anni nel contenimento dell’inflazione: i mercati si aspettano aumenti del tasso di interesse dello 0,5 per cento a ciascuno dei prossimi tre meeting del comitato che decide la politica monetaria.

Un brusco aumento dei tassi potrebbe determinare la frenata dell’economia americana, forse addirittura una recessione se l’inflazione restasse alta a causa della guerra che spinge in alto i prezzi di gas e petrolio, con ripercussioni a cascata in Europa e nei paesi in via di sviluppo che spesso hanno debiti in dollari.

E intanto Putin, che pure accusa il colpo delle sanzioni, vede i suoi nemici indebolirsi mentre continua l’offensiva in Donbass.

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