Alla ricerca di una soluzione per il “dopo”, in uno scenario politico regionale che si annuncia assai instabile per le conseguenze legate alla guerra tra Hamas e Israele, Stati Uniti e Europa convergono sulla posizione che l’interlocutore in campo palestinese è, e sarà, l’Anp.

Presa di posizione obbligata, ribadita non solo nell’intento di superare il lungo, colpevole, disinteresse per un conflitto che si voleva dimenticato e delegato alla politica del fatto compiuto. Ma una simile (re)investitura rischia di essere poco più che annuncio se non seguita da una strategia coerente e atti concreti.

Se l’intento è anche quello di rafforzare l’Anp e affidargli Gaza, dopo un conflitto che lascerà sul terreno pesanti macerie, materiali e politiche, serviranno decisioni che non restino, come in passato, solo sulla carta. O che non si traducano in mera ed enfatica politica-annuncio. E che, per quel che riguarda l’occidente, abbia la volontà di affrontare, anche gordianamente, i propri nodi interni.

“Nulla sarà come prima”

È diffusa convinzione in Israele che dopo la guerra “nulla sarà come prima” a Gaza, che si vorrebbe eradicata dalla presenza di Hamas: la portata, e l’intensità, dell’operazione “Spade di ferro” conferma, senza infingimenti, l’obiettivo.

Ma, realisticamente, occorre prendere atto che quel “nulla sarà come prima”, quella cesura, vale anche in campo palestinese. E, probabilmente, anche per buona parte dei governi della Mezzaluna, che pure negli ultimi decenni avevano relegato la vicenda al rango di scomoda eredità da chiudere prima possibile e ora si trovano pressati da una mobilitazione interna che non solo li sorprende ma rischia di delegittimarli.

La guerra, infatti, provoca vittime e distruzioni senza precedenti tra la popolazione civile della Striscia, bloccata in una fascia di terra divenuta, più che mai, mortifera prigione a cielo aperto. Un inferno dal quale non può fuggire a causa di spinte differenti ma convergenti nell’esito: la volontà di Hamas, che non vuole privarsi di una carta destinata a svolgere un ruolo essenziale sul fronte della guerra psicologica e sul piano militare; per scelta dell’Egitto, che teme, nel caso i gazawi si riversino nel Sinai, gli effetti a lungo termine generati da quella che i palestinesi definiscono già come una nuova Nakba, la “catastrofe”, l’esodo forzato seguito alla prima guerra arabo-israeliana del 1948 che ha popolato di campi profughi Siria, Libano, Giordania, Cisgiordania e la stessa Gaza.

Risentimento collettivo

Situazione, quella determinata dagli eventi bellici che, almeno per ora, nella Striscia produce un forte risentimento collettivo più che verso Hamas – che pure l’ha provocata con l’attacco del 7 ottobre ma viene ritenuta la sola forza credibile “resistente” – nei confronti di Israele e dell’Autorità nazionale palestinese. Perché, al di là dell’intento politico e militare dichiarato – allontanare il nemico dai confini – l’operazione “Spade di ferro” viene percepita dai palestinesi come punizione collettiva nei loro confronti in quanto tali. Sentimento che alimenta rancore non solo verso Israele ma, per proprietà transitiva, anche verso l’Anp, ritenuta troppo accomodante nei confronti di chi occupa i Territori dalla fine della Guerra dei Sei giorni del giugno 1967.

Sentire che rischia di rendere problematico il rientro a Gaza dell’Anp all’insegna di un semplicistico: “Ecco, la Striscia è vostra!”. Se non altro perché nella guerra Hamas potrà perdere la sua ala militare, oltre che la dirigenza politica non riparata all’estero e i quadri di primo piano, ma è un movimento politico e religioso con decine di migliaia di militanti e ancor più simpatizzanti. E, come hanno già dimostrato le elezioni del 2006, a Gaza gode di consenso. Grazie anche alla sua natura di struttura caritatevole e assistenziale, amplificata negli ultimi quindici anni dal coincidere del movimento con il governo, sovrapposizione che le ha permesso di acquisire consenso tra la popolazione più bisognosa.

Due popoli, due stati

Perché l’Anp possa esercitare la leadership nella Striscia – come al di là del Giordano, dove se si votasse oggi avrebbe amare sorprese – non è, dunque, sufficiente reinsediarla manu militari. Occorre che essa possa celermente e, dunque, con l’aiuto internazionale – di chi? Usa, Europa, paesi arabi? – ricostruire un tessuto urbano, economico e sociale – segnato da ferite difficili da suturare. Ma anche questo rilevante sforzo rischia di non essere sufficiente se non verranno sciolti, i nodi che impediscono la soluzione di un conflitto che, nei termini attuali, risale al 1967 e nei suoi storici precedenti almeno al 1948.

Larga parte della comunità internazionale converge sull’opzione che questa soluzione sia possibile solo nella cornice della formula “due popoli, due stati” che, secondo il percorso aperto dagli accordi di Oslo siglati da Rabin e Arafat, dovrebbe condurre alla nascita di uno stato palestinese a fianco di quello di Israele. Proposta che ha nemici sia in campo palestinese, Hamas, sia in quello israeliano, la destra nazionalreligiosa ma non solo.

Se anche “Spade di ferro” mettesse fuori gioco per lungo tempo Hamas – ricostruire una simile organizzazione, radicarla e farle assumere analoga forza, richiede tempo: anche se trasmigrasse in Cisgiordania – resterebbe il nodo sul versante interno israeliano. Nel caso non si determinasse una maggioranza di diverso orientamento politico nelle elezioni che probabilmente seguiranno la fine del conflitto e l’uscita di scena di Netanyhu, dovrebbe essere la destra nazionalista secolare, quella che si riconosce nel Likud, a mettere fine alla politica di espansione in Cisgiordania, che quella formazione ha favorito, sin dai tempi di Begin, in nome della “sicurezza” del paese.

Governi di qualsiasi colore dovrebbero, in ogni caso, andare alla resa dei conti con i coloni nazionalreligiosi che, in nome di una “teologia della Terra” agitata come grimaldello attivistico della Redenzione – secondo tale credenza questa verrebbe accelerata dal «ritorno dell’intero popolo di Israele, nell’intera Terra di Israele», dunque dal ritorno dell’intera diaspora nel territorio dell’Israele biblica, assai più vasta di quello riconosciuto internazionalmente nei confini del 1967 – sottraggono quotidianamente spazio, nella West Bank, a quello che dovrebbe diventare il territorio del futuro stato palestinese. Istanze messianiche irriducibili a qualsiasi ipotesi negoziale, non a caso sfociate nell’assassinio di Rabin.

Obiettivi da brividi, quelli legati alla formula “due popoli, due stati”, per le resistenze destinate a suscitare nelle ali estremiste di entrambi i campi. Ma senza perseguire convintamente quella strada la probabilità che Hamas riemerga, affondando definitivamente l’Anp, è elevata. I fautori solo a parole dei “due stati” avranno, allora, davanti solo il volto irriducibile del fondamentalismi.

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