Due immagini definiscono il giorno delle prime liberazioni, dei tre ostaggi ebrei e dei novanta detenuti palestinesi. La prima, del mattino, le bombe israeliane che cadono su Gaza quando già dovrebbe essere tregua e provocano una ventina di morti: se tutte le vittime innocenti della guerra sono da rimpiangere queste dei tempi supplementari sono le più inutili.

La seconda, del pomeriggio. Romi Gonen, Emily Damari e Doron Steinbrecher, le tre ragazze che rivedono le stelle dopo il buio dei tunnel, sono attorniate da una folla vociante, scortate verso le macchine della Croce rossa da miliziani di Hamas che indossano le mimetiche abbandonate durante il conflitto per non essere identificati e alzano verso il cielo i kalashnikov lanciando slogan bellicosi.

Due immagini, l’esibizione di due prove di forza a futura memoria. Come per indicare che la partita non è finita.

I possibili rischi

Il governo d’Israele voleva distruggere Hamas e non c’è riuscito. Hamas ha nel proprio statuto la distruzione dello stato d’Israele e lo scopo è, per fortuna, abissalmente lontano. Due obiettivi diversamente irraggiungibili ma nei quali continuano a credere gli elementi più fanatizzati dei rispettivi schieramenti.

Bisogna partire da qui per analizzare le possibilità di riuscita di una tregua fragile, resa ancora più precaria dai tempi lunghi di attuazione e dai troppi passaggi intermedi. Non va dimenticato che gli accordi del passato, sia recente sia remoto, fossero di tregua o di pace, si sono infranti contro gli atti di estremisti che avevano tutto l’interesse a farli deragliare nel rispetto di quello slogan becero per il quale “finché c’è guerra c’è speranza”.

Basta un nonnulla. Un attentato di qualche frangia militare del movimento islamista sfuggita al controllo dell’ala politica; un pogrom dei coloni della Cisgiordania il cui leader, Bezalel Smotrich, è rimasto nella maggioranza di governo «per senso di responsabilità», ma dopo una critica feroce all’accordo; mentre l’altro esponente della destra messianica e razzista, Itamar Ben-Gvir, ha lasciato l’esecutivo sbattendo la porta fornendo così qualche pezza giustificativa d’appoggio all’azione di qualche sconsiderato.

Nella totale sfiducia reciproca, qualunque pretesto manderebbe in frantumi le buone intenzioni quando la storia dovrebbe insegnare che è preferibile comunque continuare sulla strada intrapresa proprio per non cedere al ricatto terrorista.

Fosse Hamas ad attaccare, Benjamin Netanyahu potrebbe bypassare il volere di Donald Trump, l’uomo a cui non può dire di no, che lo ha di fatto obbligato a firmare ma ha aggiunto che, se Hamas dovesse compiere un passo falso, darebbe carta bianca a Tel Aviv per scatenare di nuovo l’inferno. Fossero i coloni o qualunque altra frangia dell’estremismo ebraico, i palestinesi si sentirebbero legittimati a colpire a loro volta, nel perenne susseguirsi di azione e reazione purtroppo ben noto nell’area.

La seconda fase

Un’insidia, forse la maggiore, sta nascosta nelle liste dei prigionieri da liberare, nelle priorità da dare. Le infinite discussioni sui nomi sono state una zavorra dei negoziati e minacciano di esserlo anche in futuro, a ogni passo ulteriore dopo il primo, confortante, ma in qualche misura il più facile a causa delle enormi aspettative che si erano create e che non potevano più essere disattese.

Azzardare un pronostico è comunque rischioso. E tuttavia la prima fase di 42 giorni potrebbe essere ultimata pur fra molte fatiche. Netanyahu ha appena promesso alla piazza inquieta la liberazione di tutti i 94 ostaggi (quanti torneranno cadaveri lo vedremo in corso d’opera), e non deve temere per la tenuta del suo governo: anche in caso di addio di Smotrich, i centristi gli hanno già garantito il proprio appoggio. Hamas ha bisogno di tempo per riorganizzarsi con le reclute dei mesi dell’odio andate a sostituire i miliziani caduti.

I problemi seri arriveranno dalla seconda fase in poi. Quando le ragioni umanitarie degli scambi saranno sostituite a mano a mano da scelte più delicate e politiche. Anzitutto l’abbandono del corridoio Filadelfia, lungo il confine tra Egitto e Gaza, da parte dei soldati di Israele che ora controllano il possibile passaggio di armi nei tunnel del sottosuolo. E poi la decisione su chi governerà la Striscia.

Difficile la screditata Autorità palestinese, problematica una forza internazionale con la collaborazione di qualche autorità locale da cui pare impossibile depennare tutti i nomi sgraditi ad Hamas, ancora assai popolare nonostante i lutti provocati. Infine la creazione di uno stato palestinese, sempre osteggiata da Netanyahu ma riemersa come unica soluzione duratura nel tempo. I popoli solo due, nessuno dei quali ha uno stato di riserva.

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