I negoziati per il cessate il fuoco a Gaza e la gestione politica-militare della Striscia al termine del conflitto sono entrati nel vivo. Nel fine settimana sono emersi diversi segnali positivi dai colloqui portati avanti da Egitto, Qatar, Stati Uniti, Israele e le parti palestinesi coinvolte.

Al primo spiraglio di luce di sabato si è aggiunto un secondo nella giornata di ieri. È stata raggiunta un’intesa sul «quadro generale», ha detto ieri il consigliere per la Sicurezza nazionale statunitense, Jake Sullivan, intervistato dalla Cnn. Le trattative hanno subìto un’accelerazione nell’ultima settimana anche perché le parti vogliono arrivare a un cessate il fuoco temporaneo per il mese sacro musulmano del Ramadan, che inizierà il prossimo 10 marzo.

Ci sono circa due settimane per arrivare alla definizione di un accordo credibile da tutti per il rilascio degli ostaggi (ieri è morto uno dei militari catturati il 7 ottobre) e dei prigionieri palestinesi. In settimana proseguiranno i colloqui tra Israele e Hamas a Doha per definire i dettagli, che saranno poi ultimati in Egitto in una serie di incontri successivi.

Secondo quanto riportato dal Jerusalem Post e da Sky news arabic, il governo dell’Autorità nazionale palestinese, guidato dal premier Mohammed Shtayyeh, potrebbe dimettersi entro due giorni. Al suo posto subentrerà una squadra di tecnocrati che non hanno legami con partiti e movimenti politici. La notizia fa pensare che dopo una prima fase di transizione, al termine del conflitto la Striscia passerà sotto il controllo della riformata Autorità palestinese.

Ci sono però due incognite. La prima è legata alla mancanza di legittimità del nuovo ente, non scelto dai palestinesi stessi. La seconda, ed è quella più delicata, riguarda la disponibilità di Hamas ad accettare o meno una decisione presa dall’alto che gli farebbe perdere il controllo su Gaza.

Rafah

Un’altra incognita pesante sulle trattative sarà l’operazione militare israeliana nel sud della Striscia. In un’intervista alla Cbs il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che al di là dell’accordo l’offensiva si farà.

«Ci vorrà ancora qualche settimana e poi si arriverà alla vittoria totale» su Hamas ha detto. Nelle prossime ore incontrerà il capo di Stato Maggiore israeliano per discutere gli aggiornamenti riguardanti i due piani militari, uno è per l’evacuazione dei civili che sono ammassati nel sud della Striscia, l’altro è per distruggere i battaglioni di Hamas.

La guerra

In attesa dell’offensiva definitiva, l’esercito israeliano ha continuato ad attaccare Khan Yunis e Gaza city. È proprio a Khan Younis, considerata la roccaforte di Hamas, che secondo i media arabi le autorità egiziane hanno iniziato a costruire un secondo campo profughi. Il campo comprenderà 400 tende che ospiteranno circa 4mila persone e sarà dotato di elettricità e servizi primari.

Un’altra struttura simile sarà costruita a nord di Deir al Balah, mentre dal Cairo puntano a creare un ospedale da campo a Rafah dove al momento si trovano oltre un milione di sfollati palestinesi.

Nel Mar Rosso, invece, la situazione militare è molto tesa. Nella notte gli Stati Uniti e il Regno Unito, che guidano la missione militare Prosperity guardian, hanno colpito nella notte 18 obiettivi degli Houthi nello Yemen. In risposta, il gruppo yemenita sostenuto dall’Iran ha attaccato con missili e droni la petroliera americana Torm Thor, che si trova nel Golfo di Aden, e alcune navi da guerra americane nel Mar Rosso.

Problemi interni

A Tel Aviv è stato un fine settimana complicato per il premier israeliano Benjamin Netanyahu. Sabato sera migliaia di manifestanti, tra cui anche i parenti degli ostaggi e delle vittime e i leader delle proteste contro la riforma della giustizia, si sono riuniti in piazza per chiedere le sue dimissioni. Sono stati colpiti dagli idratanti e dalle cariche della polizia a cavallo. Sono stati i disordini più rilevanti dal 7 ottobre scorso. «La violenza della polizia contro i manifestanti, fra cui familiari degli ostaggi, è pericolosa, antidemocratica e non può continuare. Protestare è un diritto fondamentale e non può essere contrastato con manganelli e idranti», ha detto il leader dell’opposizione, Yair Lapid.

La speranza Trump

Con Netanyahu criticato sia all’interno che all’esterno, con Washington che non è d’accordo con l’operazione su Rafah, il premier spera in un’interlocutore futuro più accondiscendete con i suoi piani. La vittoria schiacciante di Donald Trump (con circa il 60 per cento dei voti) alle primarie del partito repubblicano in South Carolina contro la padrona di casa Nikki Haley sono un ottimo segnale per Bibi.

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