Il capo della Casa Bianca ha ribadito che a prendersi i palestinesi dovranno essere l’Egitto e la Giordania. Se la richiesta venisse avallata, si aprirebbero fronde interne devastanti. Se disobbediscono, addio agli aiuti Usa. L’espulsione dei gazawi è sul tavolo. Con esiti disastrosi
Politici e giornalisti a lui devoti in passato hanno paragonato Donald Trump a figure bibliche, dalla regina Elena ad Abramo, e lui ha confermato di essere sopravvissuto a un attentato grazie alla protezione divina: ma nessuno finora ci ha spiegato quale sia la missione che Nostro Signore gli ha affidato.
A giudicare dalle sue prime mosse, questa: accelerare il declino degli Stati Uniti. Renderli insopportabili perfino agli amici. Ridurne l’influenza, il prestigio, gli alleati. Il metodo: prendere di petto il mondo con una brutalità che svela fin troppo e obbliga chiunque a reagire.
L’esempio più vistoso di questo autolesionismo: Trump ha annunciato e ribadito che due vassalli mediorientali degli Usa, Egitto e Giordania, si prenderanno i palestinesi di Gaza. Qualsiasi cosa gli avessero promesso in privato, al Sisi e re Abdullah sono stati costretti a negare ufficialmente la loro disponibilità al “trasferimento” dei gazawi.
Se ubbidissero, scatenerebbero in patria opposizioni e fronde che non attendono altro per liquidarli. Se si ostinassero nel rifiuto, obbligherebbero Washington a tagliare aiuti e sussidi alle due economie: soprattutto l’egiziana è così malridotta che il vacillante al Sisi sarebbe nei guai.
Compromessi problematici
Quale che sia il compromesso che si troverà, rivelando il progetto di “pulizia etnica” mascherata che è il retropensiero israeliano fin dall’inizio della guerra Trump è riuscito a renderlo problematico. Ma, dopo aver ridotto le città a cumuli di macerie, Israele è ancora nelle condizioni di spopolare la Striscia incentivando l’emigrazione «su basi volontarie» con denaro o disponibilità di alloggi.
Secondo quanto dichiarò l’anno scorso il deputato egiziano Atef Maghawry, il governo Netanyahu promise ad al Sisi 20mila dollari per ogni “migrante” cui avesse trovato una casa, non poco in un Paese indebitato fino al collo e afflitto da un surplus di alloggi non occupati. I “migranti” potrebbero essere altresì ospitati in una città del Sinai che una mafia beduina legata al regime egiziano ha cominciato a costruire nei mesi scorsi. In entrambi i casi i finanziatori sarebbero monarchie del Golfo.
Se l’alternativa fosse restare accampati per anni in un campo di battaglia, molti gazawi sceglierebbero l’esilio. Così svuotata, Gaza diventerebbe la tonnara nella quale l’esercito israeliano tenterebbe di sterminare Hamas, obiettivo finora fallito. Nella West Bank il metodo “Ti tormento finché non cercherai scampo fuggendo altrove” potrebbe seguire tecniche diverse, ma alla fine l’esito sarebbe simile.
Il governo Netanyahu non si lascia un’alternativa. Non vuole un negoziato per la nascita di uno stato palestinese, la condizione posta dagli arabi per mandare a Gaza una forza multinazionale che dovrebbe mettere in riga Hamas.
Non vuole che la Striscia finisca a una qualche nuova leadership palestinese, dato che Hamas ne sarebbe informalmente parte costitutiva. Dunque, “pulizia etnica”, sia pure ben travestita. Oppure retromarcia di Netanyahu, a rischio di scatenare la reazione dei coloni, armatissimi, egemoni nella polizia della West Bank, forti anche nell’esercito.
C’è ancora in Europa, perfino nelle destre, chi non può accettare l’espulsione strisciante dei palestinesi. Vuoi per decenza, vuoi nella consapevolezza che condurrebbe a turbolenze fortissime in tutta l’area. Ma, come confermano i balbettii seguiti alle pretese dichiarate da Trump sulla Groenlandia, oggi il tasso di coraggio nella Ue è così basso che è più realistico prevedere lo spettacolo solito: proclami di corrucciata preoccupazione, appassionate polemiche su questioni inafferenti.
Politica e opinionismo di corte continueranno a massaggiare il linguaggio con tutti gli olii dell’ipocrisia. Si condannerà il “terrorismo” e ci si richiamerà ai “valori giudaico-cristiani” col tono basso che suggerisce una conoscenza riservata agli incliti. Termini come “apartheid” e “pulizia etnica” resteranno banditi dal politically correct democratico.
Anche il progressismo li eviterà, come se anch’esso non trovasse le parole, tantomeno una narrazione da cui desumerle. Proviamo ad aiutarlo.
“Pulizia etnica” fino a ieri era termine proibito nel dizionario dei media occidentali, e quando suggerivo che proprio quello fosse il retropensiero della destra israeliana mi si obiettava che solo avanzare quel sospetto era sicura prova di antisemitismo. Una “pulizia etnica” non è quello che la lingua italiana chiama “genocidio”, ma le azioni che la realizzano ricadono in una fattispecie giuridica che ha appunto quel nome: genocide, articolo 6 dello Statuto di Roma. Da qui una confusione che favorisce opposti fraintendimenti.
Gli uni propongono un paragone demenziale tra i bombardamenti di Gaza e l’Olocausto, gli altri ne approfittano per giudicare scandaloso che l’accusa di genocide ricada sulla nazione vittima del genocidio-Olocausto. Ne conseguono risse tra bari.
Se però andiamo alla sostanza dobbiamo convenire che il leader dell’Occidente incita a commettere crimini contro l’umanità. Comportamento coerente con l’idea che l’Occidente sia non un’alleanza tra stati di diritto liberali, vulgaris “democrazie”, ma la configurazione di un assetto imperiale in cui l’imperatore ritiene di poter spostare a piacimento popolazioni e confini. I vassalli di siffatto sovrano non possono opporsi ai suoi voleri, pena dazi micidiali. All’Europa, all’Italia conviene assecondare in silenzio?
Un’altra parola complicata è “terrorismo”. Termine assente nello Statuto di Roma perché di difficile codificazione. Nei notiziari sul conflitto arabo-palestinese la Bbc si astiene dall’usarlo, la Rai largheggia, spesso facendo propria la tesi del governo israeliano per il quale nella West Bank ogni palestinese in armi è un terrorista.
Però la Corte internazionale di giustizia sostiene che Israele occupa illegalmente la West Bank in regime di apartheid o di segregazione: ne consegue che chi difende la propria terra sparando sull’esercito occupante è un patriota, non un terrorista, e se rispetta le regole di guerra meriterebbe, oibò, la nostra solidarietà. Nessuno può dubitare che Hamas e Jihad pratichino il terrorismo giudeofobico nelle forme più brutali. Ma è verosimile che nella West Bank si siano convertiti alla lotta armata anche tanti che tre anni fa si dichiaravano favorevoli a uno stato binazionale, arabo-ebraico.
Oggi quei palestinesi sono inquadrati in milizie che non richiamano nel nome Allah o eroi islamici, ma i sentimenti che in circostanze analoghe motiverebbero ragazzi europei: si chiamano “Gioventù per la vendetta e per la liberazione”. Cos’altro potrebbero fare se non combattere, quando l’alternativa sembra incamminarsi a testa a bassa verso l’esilio o al più vivacchiare in piccoli Bantustan della West Bank privi di unità territoriale, il piano offerto da Trump cinque anni fa?
Possiamo solo sperare che abbiano imparato qualcosa dal pogrom che innescò la guerra e dall’atroce vicenda degli ostaggi, altrimenti la guerra proseguirà come scontro tra opposte disumanità.
Dove vanno le speranze
Chi può fermare questo corso? Si può sperare soprattutto negli ebrei che in Israele e all’estero non hanno mai accettato le politiche del governo. Non è sbagliato considerarli i nostri “fratelli maggiori”. Non per immaginari retaggi biblici, ma perché occorre una certa grandezza per credere nei valori universali dell’umanità malgrado le storie personali e familiari suggeriscano l’eterna prevalenza del Male declinato in tutte le sue declinazioni, inclusa l’indifferenza che nega almeno empatia alle vittime, tutte.
Nel sionismo delle origini c’era un po’ di questa grandezza. Ma oggi? Un antisemitismo che rialza la testa vorrebbe che gli ebrei siano diversi. A giudicare dal credito che riscuotono Trump e Netanyahu presso istituzioni e siti dell’ebraismo, si direbbe che il problema sia l’opposto: tolta la minoranza di cui si è detto, oggi gli ebrei non sono affatto diversi. Non più.
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