Mentre sono ancora in corso le indagini riguardanti i documenti segreti sottratti da Donald Trump alla Casa Bianca, ecco che si presenta un nuovo dilemma per il procuratore generale Merrick Garland: sono stati ritrovati dieci fascicoli classificati in una stanza collocata all’interno del Penn Biden Center, un think tank di Washington legato al presidente dove nel periodo compreso tra il 2017 e il 2019 ha tenuto alcune lezioni.

Il ritrovamento di questi documenti, avvenuto due mesi fa durante un trasloco e svelato solo nei giorni scorsi, rivela che questi risalgono all’epoca in cui Biden era vicepresidente di Barack Obama, e l’apertura di un’indagine è d’obbligo. Secondo le cronache della stampa americana, alcuni dei documenti riguardano stati stranieri, fra cui l’Irlanda, l’Iran e, fatalmente, l’Ucraina.

A condurla, ancora una volta però, sarà una figura terza, John Lausch, nominato nel novembre 2017 da Donald Trump  procuratore distrettuale del Nord dell’Illinois, che avrà l’incarico di valutare se questo occultamento fosse o meno doloso.

In altri tempi sarebbe stata una notizia secondaria, ma oggi tra i commentatori conservatori è facile tracciare un parallelismo tra queste carte e le centinaia occultate dall’ex presidente nella sua residenza di Mar-a-Lago.

Credibilità e lotta politica

Vista dal punto di vista del procuratore generale Garland, la situazione è un incubo: da gestire non ci sono soltanto due indagini riguardanti due presidenti americani, ma anche la credibilità della sua immagine.

È bene ricordare che Garland è diventato procuratore generale nell’amministrazione Biden anche perché nella primavera del 2016 la sua nomina a giudice della Corte suprema in sostituzione del conservatore Antonin Scalia da parte di Barack Obama subì il totale ostruzionismo dei repubblicani al Senato, che rifiutarono di prendere in considerazione il suo nome.

In questo modo la nomina arrivò a scadenza naturale e il successore di Scalia venne scelto da DonaldTrump nella persona dell’altrettanto conservatore Neil Gorsuch.

Nonostante questo affronto, Garland non ha mai mostrato animosità aperta nei confronti dei repubblicani: anzi, anche durante le audizioni del 2021 perfino il repubblicano Ted Cruz gli riconobbe «equilibrio e integrità».

Però in questi due casi il problema dell’opportunità politica si presenta eccome. Non basta la fama e il fatto di essere stato preferito ad altre figure più vicine al presidente Biden, come l’ex senatore dell’Alabama Doug Jones.

Qui c’è un potenziale doppio standard, dove può influire poco il dolo o meno nell’occultare documenti governativi, specie quando molti commentatori progressisti avevano chiesto che Trump finisse “in tuta arancione”, oppure che venisse interdetto dai pubblici uffici.

Le raffinate analisi di alcuni commentatori legali servono a poco a calmare gli animi del caucus repubblicano alla Camera, che già ha promesso di indagare sui membri dell’amministrazione Biden.

Addirittura, per l’ultratrumpiana e QAnonista Marjorie Taylor Green, Garland andrebbe messo sotto impeachment per la gestione “politicizzata” delle indagini relative all’assalto a Capitol Hill lo scorso 6 gennaio, anche se il dipartimento di Giustizia ha rilasciato un comunicato che cerca di gettare acqua sul fuoco della potenziale incriminazione di Trump dicendo che i lavori della commissione parlamentare, che si sono conclusi lo scorso 31 dicembre, sono «tutt’altro che definitivi».

Rapporti con il Congresso

L’impeachment, anche qualora venisse approvato dalla striminzita maggioranza repubblicana, non porterà a nulla in un Senato a maggioranza democratica, ma contribuirebbe certamente a macchiare in modo indelebile la reputazione del procuratore generale agli occhi del pubblico conservatore.

Più concreta invece è la situazione che è già in atto, ovvero sia l’interruzione della collaborazione tra il dipartimento di Giustizia e l’analoga commissione alla Camera, dal 3 gennaio scorso presieduto dal trumpiano Jim Jordan, che ha già promesso un’indagine congressuale su tutte le inchieste condotte da ogni agenzia federale che i repubblicani indicheranno come “sospetta” , ivi comprese quelle di competenza dell’Fbi, dell’agenzia federale delle entrate (Irs) e di altri rami dell’intelligence.

Questa scelta deriva anche dalla turbolenta elezione a speaker della Camera di Kevin McCarthy, che ha richiesto ben quindici votazioni e la concessione all’estrema destra ultratrumpista di fare luce sul cosiddetto “deep state”, che ai loro occhi ha contribuito a “rubare” le elezioni presidenziali del 2020.

Anche in questo caso è improbabile che queste indagini sortiscano effetti concreti, ma di sicuro rallenteranno con ostruzionismi di ogni genere tutto ciò che si ritiene possa danneggiare l’ex presidente Trump o i suoi alleati.

L’unica via d’uscita per Garland, quindi, è quella di ricusarsi, come nel caso dell’inchiesta sulle carte rubate di Mar-a-Lago e di nominare procuratori speciali che non possono essere rimossi nemmeno nel caso in cui le indagini si prolunghino oltre il 2024 e i repubblicani vincano la presidenza.

Una situazione scomoda dove Garland sente anche la pressione dei progressisti, che lo accusano di aver fatto poco o nulla contro il “tentato golpe” del 6 gennaio, se non cercare di rimandare il problema generale, ovverosia l’incriminazione di Donald Trump, peraltro chiesta dalla commissione d’inchiesta congressuale sui fatti di Capitol Hill.

Con una maggioranza repubblicana alla Camera, le mani di Garland sono ancora più legate di prima.

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