Ora che l’Europa è d’accordo per condividere il debito, come troverà le risorse per rendere quel debito sostenibile? La questione non è solo economica; è soprattutto politica, e sulla risposta che darà il continente si gioca il suo assetto futuro.

Queste “risorse proprie” sono il punto più delicato del piano per la ripresa dalla crisi del Covid-19 per due motivi. Il primo è che i parlamenti nazionali dovranno approvare questo aspetto dell’accordo.

Il Consiglio europeo ha lasciato questo capitolo il più possibile indefinito: si è espresso in modo nitido sulla “plastic tax”, la tassa sui rifiuti di plastica non riciclati che dovrebbe partire il primo gennaio, ma ha tenuto più nebulose la tassa sulle emissioni e il prelievo sul digitale, e addirittura ha lasciato come vaga ipotesi l’imposta sulle transazioni finanziarie.

Le tasse europee

Quanto potrebbero valere queste “tasse europee”? La tassa sulla plastica non riciclata qualche miliardo annuo (visto che l’aliquota di prelievo potrebbe arrivare a 80 centesimi a chilo), ma l’imposta sul digitale, che nasce dall’intenzione di far pagare tasse eque ai colossi della tecnologia che fanno profitti in Europa, ne porterebbe altri cinque all’anno.

Tassare le transazioni finanziarie sfiorerebbe invece i sessanta miliardi di euro. Il Consiglio europeo tiene come punto fermo solo la plastica anche perché su queste “tasse europee” si devono esprimere i parlamenti nazionali; più la formulazione è vaga, meno resistenze ci sono.

Le risorse sono un punto di scontro con un altro parlamento, quello europeo. Proprio l’Europarlamento, prima ancora dei parlamenti nazionali, è il luogo dove ora il futuro bilancio europeo deve passare. L’accordo raggiunto dai 27 governi è diviso in due filoni: il piano di ristoro e il bilancio settennale.

Il potere di freno

Il parlamento europeo, che dovrà negoziare con il consesso dei 27 governi, ovvero il Consiglio, ha ruolo consultivo sul primo e potere di veto sul secondo; o almeno, su questo assetto hanno potuto basarsi le istituzioni Ue visto il carattere straordinario del piano anti crisi. Ma “il trattato di Lisbona parla chiaro: il parlamento europeo è co-legislatore per quel che riguarda il bilancio comune. Il piano di ristoro è stato tenuto formalmente fuori dal bilancio pluriennale, ma l’assemblea potrebbe rivendicare lo stesso potere”, dice Lucas Guttenberg, vicedirettore del think tank Delors Institute di Berlino.

L’assemblea reclama il proprio ruolo, e mentre il Consiglio (i governi) si divide tra frugali, blocco di Visegrad, mediterranei, asse francotedesco, l’Europarlamento stavolta riesce a unire (quasi) tutte le famiglie politiche: prendono posizioni affini popolari, socialdemocratici, verdi, liberali, sinistra. In coro (a parte qualche sovranista) dicono: “L’Europa non è un bancomat!”.

Gli europarlamentari hanno appena approvato a larga maggioranza (465 voti a favore) una risoluzione molto dura con il Consiglio, il quale con il suo accordo si è espresso sia sul piano di ristoro che sul bilancio settennale. E’ su quest’ultimo capitolo che il parlamento può far pesare tutto il suo potere di freno, e allora deplora i tagli a programmi comuni di rilevanza strategica come Horizon, la ricerca, Erasmus+, che esce dimezzato rispetto ai desideri del parlamento, Health (salute), JustTransition (transizione climatica), Europa digitale, gestione delle frontiere, solidarietà, cooperazione allo sviluppo, e in generale la mancanza di ambizione su settori “determinanti per il futuro”. Migrazioni, ambiente, digitale, salute sono del resto i punti sui quali l’Europa è inciampata in tempi recenti.

Gli interessi generali

Troppo spesso, dicono gli europarlamentari nella loro risoluzione, “si mettono a rischio gli interessi generali per accontentare posizioni nazionali”. Con conseguenze che preoccupano i più giovani. Lo European Youth Forum, il forum della gioventù europeo, si indigna: “Come può il Consiglio disinvestire sui ragazzi, tagliando iniziative come l’Erasmus+? E’ così che pensano di uscire dalla crisi?”, dice il vicepresidente, Ville Majamaa.

Un altro punto su cui è richiesta più ambizione è il rispetto dello stato di diritto: l’assemblea degli eletti dell’Unione pretende anche su questo più coraggio, invece delle formulazioni vaghe del Consiglio, che deve accontentare i 27 governi (comprese Polonia e Ungheria) e che quindi per la rule of law si limita a rinviare la partita alla Commissione. Poi c’è il punto delle risorse: l’assemblea nella sua risoluzione dice che senza chiarezza sulle risorse proprie non licenzierà il bilancio.

E’ stato proprio uno scontro tra Consiglio ed Europarlamento sulle risorse a produrre in passato una svolta in Europa: nel 1979 il disaccordo tra il Consiglio, l’organo che riunisce i governi, e l’assemblea rappresentativa, eletta proprio quell’anno per la prima volta direttamente dai cittadini, ha innescato, su iniziativa del parlamento, un percorso costituente che ha portato nel 1984 al “progetto per un Trattato istitutivo dell’Unione europea”.

I parlamenti nazionali non hanno poi sdoganato questa “costituzione europea”, ma è stata comunque un presupposto per l’Atto unico europeo e il Trattato di Maastricht. Ora la discussione sul bilancio europeo potrebbe portare a sorti simili: magari cambierà poco nell’immediato, ma le incongruenze sperimentate durante l’emergenza costringeranno a ripensare la governance d’Europa.

In agenda per la prossima stagione c’è la Conferenza sul futuro dell’Europa.

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