La Casa Bianca ha deciso di affrontare la crisi Ucraina con una martellante campagna di controinformazione per svelare i trucchi, le manovre pretestuose e i depistaggi di Vladimir Putin prima ancora che questo li mettesse in atto.

Lo ha fatto attraverso una specie di live tweeting del futuro, condividendo pubblicamente informazioni d’intelligence normalmente secretate e facendo parlare con inusuale frequenza gli esponenti dell’amministrazione.

Soltanto nella giornata di martedì scorso sedici funzionari del dipartimento di Stato hanno rilasciato interviste per spiegare quali sarebbero state le prossime mosse della Russia.

Il segretario di Stato, Antony Blinken, al consiglio di sicurezza dell’Onu ha snocciolato un prontuario dei pretesti che la Russia avrebbe potuto addurre per giustificare l’invasione: un «attacco violento» costruito ad arte, una «accusa esagerata» di qualche tipo all’Ucraina, un «attacco terroristico artefatto nel territorio russo», la scoperta di «fosse comuni», un falso «attacco con i droni contro obiettivi civili» o perfino un «vero attacco con armi chimiche», il ricorso truffaldino alla «pulizia etnica» o al «genocidio» e così via.

In uno dei suoi vari interventi degli ultimi giorni, il presidente Joe Biden ha spiegato il senso di una strategia che intende contrastare Putin sul suo terreno preferito: «Sveliamo i piani della Russia apertamente e senza sosta non perché vogliamo un conflitto, ma per togliere ogni ragione che la Russia possa offrire per giustificare l’invasione dell’Ucraina».

La tattica è efficace. Quando un mezzo militare dei separatisti russi è esploso vicino a un palazzo del governo separatista del Donetsk, tutti hanno ricollegato l’evento agli avvertimenti sulle messinscene russe che gli Stati Uniti lanciano da settimane.

Le informazioni preventivamente messe in circolazione hanno cambiato l’interpretazione del fatto e, di conseguenza, le reazioni a esso, un po’ come se il pubblico che assiste allo spettacolo di un prestigiatore fosse messo al corrente del meccanismo dietro a ogni trucco pochi istanti prima che questi lo esegua.

La strategia della trasparenza di Biden, che è il rovescio delle manipolazioni delle informazioni del Cremlino, pone questioni logico-politiche non del tutto trascurabili.

Innanzitutto, fino a che punto il perseguimento di un obiettivo politico, anche condivisibile e buono (in questo caso: evitare una guerra), giustifica la pubblicazione di eventualità verosimili ma che sono ancora ipotetiche nel momento in cui vengono pronunciate?

Alcuni scenari descritti dagli Stati Uniti assomigliano tremendamente a fatti che poi si sono effettivamente verificati, ma altri no. L’amministrazione, ad esempio, ha fatto trapelare che il 16 febbraio sarebbe stato il giorno dell’invasione russa, ma così non è stato.

Blinken ha anche detto che la guerra sarebbe scoppiata molto probabilmente prima della fine dei giochi olimpici, altro fatto che non si è verificato.

Non c’è bisogno di tornare alla fiala agitata da Colin Powell al palazzo di Vetro e alle armi di distruzione di massa che Saddam Hussein non aveva – ma che sono state sufficienti per giustificare l’invasione dell’Iraq – per sapere che nelle crisi le informazioni vanno gestite con estrema prudenza, anche nel caso si convenga tutti che fermare le iniziative militari di Putin è, semplificando, la cosa giusta da fare. 

Qui s’innesta un’ulteriore complicazione, quella delle profezie che si autosmentiscono. Le informazioni rivelate dagli americani in queste settimane non si limitano a prefigurare quello che accadrà (che già è difficile), ma intendono evidentemente modificare il corso degli eventi.

Il fatto stesso di svelare il piano di un avversario può sventarlo o depotenziarlo, faccenda che genera un cortocircuito logico di non banale risoluzione. 

Una cosa che è “vera” nel momento in cui la si pronuncia date le informazioni a disposizione in quel momento (ad esempio: Putin invaderà l’Ucraina nei prossimi giorni) può rivelarsi poi “falsa” proprio perché la pubblicazione di quella “verità” influenza la decisione di chi può dare o non dare l’ordine di invadere. 

Questo rende l’informazione pubblicata una fake news, una manipolazione, una trappola comunicativa? E fino a che punto è lecito spingersi nel diffondere dati che poi vengono smentiti?

In un certo senso, tutte le previsioni diffuse dagli Stati Uniti in queste settimane compiono il loro scopo più profondo proprio quando non si avverano. Biden vince quando Putin non fa ciò che l’avversario diceva che avrebbe fatto o potuto fare.

Cosa che, paradossalmente, dovrebbe spingere la Casa Bianca a diffondere ulteriori scenari che, proprio perché vengono svelati, non si verificheranno. È solo uno dei molti crinali su cui corre la guerra delle informazioni.

   

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