Per chi possiede un passaporto straniero quello di ieri è stato il giorno della fuga dalla Striscia. La differenza tra chi può passare il valico di Rafah e trovare salvezza in Egitto e chi invece, come i gazawi, è costretto a rimanere dentro quel fazzoletto di terra sotto il fuoco dei bombardamenti la fa un semplice pezzo di carta. E così, nella tarda mattinata di ieri i primi a lasciare la Striscia sono stati due cittadini britannici.

Alle 18 il numero è salito a 335 persone secondo il Guardian, tra queste anche quattro cittadini italiani come annunciato dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani. «Ho appena parlato con i connazionali e con il funzionario dell’ambasciata al Cairo che li sta assistendo. Stanno tutti bene», ha detto il ministro.

Tra i primi italiani a parlare è stato Jacopo Intini che lavora per un’organizzazione umanitaria: «Sono provato ma sto bene. Il nostro ruolo è di stare al fianco della popolazione ma le condizioni drammatiche sul campo non ci consentono di lavorare». In totale dovrebbero uscire da Gaza oltre cinquecento cittadini stranieri, molti dei quali sono volontari di ong e funzionari internazionali. Oltre a loro sono 76 i civili palestinesi feriti gravemente che saranno invece curati in Egitto. La situazione si è sbloccata dopo tre settimane di trattative – tra Egitto, Israele, Hamas e Qatar – che hanno subito un’accelerazione con l’ingresso nella Striscia di un flusso costante di aiuti umanitari.

Ma il premier egiziano Mostafa Madbouly ha già fatto sapere che il paese non è disposto ad accogliere l’esodo di gazawi sul suo territorio. La sensazione, ora, è che senza la presenza di stranieri a Gaza da Tel Aviv può arrivare l’ordine per intensificare la tanto annunciata operazione via terra che di fatto è già iniziata – anche se con bassi ritmi – nei giorni scorsi.

L’operazione militare

Proseguono le incursioni dell’esercito israeliano nella Striscia. I soldati stanno cercando di penetrare all’interno di Gaza dal versante nord e da est, ma non è semplice. Secondo quanto riferito dalle autorità di Tel Aviv, sarebbero 15 i soldati uccisi da Hamas negli attacchi avvenuti nelle ultime 48 ore. Il numero totale delle vittime delle forze armate israeliane dal 7 ottobre scorso è salito così a 320 unità.

Proprio ieri Hezbollah ha riferito di aver ucciso e ferito almeno 120 soldati israeliani nelle ultime settimane durante i combattimenti a ridosso della linea di confine con il Libano. Numeri che probabilmente saranno rimarcati da Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah nel suo attesissimo discorso di domani.

Jabalia

«Sono sconvolto dall’elevato numero di vittime a seguito del bombardamento da parte di Israele del campo profughi di Jabalia», ha scritto ieri in un post l’Alto Rappresentante della politica estera europea Josep Borrell che ha chiesto a nome del Consiglio Ue il rispetto del diritto internazionale.

Secondo quanto riportato da diversi media internazionali, tra cui Haaretz, un secondo attacco israeliano ha colpito ieri l’area ad alta densità abitativa del campo profughi di Jabalia. Per gli israeliani sotto gli edifici residenziali e nei tunnel, ci sarebbero strutture militari legate a Hamas. Oltre a distruggerl e, l’intenzione è anche quella di uccidere Ibrahim Biari un importante comandante dell’organizzazione terroristica.

Non è chiaro se l’obiettivo è stato raggiunto. Al momento a farne le spese sarebbero decine di civili, tra cui anche donne e bambini. Un bilancio che ha provocato la reazione di Martin Griffiths, sottosegretario generale per gli Affari Umanitari e Coordinatore degli Soccorsi di Emergenza dell’Onu.

Secondo Hamas, le operazioni militari sul campo avrebbero causato anche l’uccisione di sette prigionieri israeliani catturati lo scorso 7 ottobre, tra cui tre titolari di passaporti stranieri. In un discorso televisivo, il leader di Hamas Ismail Haniyeh ha detto che Netanyahu vuole «distogliere gli occhi del mondo dalla sua colpa», e ha detto che gli Stati Uniti dovrebbero smettere di sostenere «questo governo fascista e… smettere di ostacolare gli sforzi internazionali» per portare un cessate il fuoco umanitario. Ma per il momento un ampio cessate il fuoco è rifiutato anche dalla Casa Bianca. Per i servizi di sicurezza occidentali permetterebbe ad Hamas di riorganizzarsi e di spostare gli ostaggi già individuati grazie al sostegno americano.

Diplomazia

Se sul campo la guerra avanza e si appresta virare verso l’escalation, i tempi della diplomazia rimangono lenti soprattutto in un momento in cui nessuna delle due parti in conflitto è intenzionata a mediare. Ieri è tornato in campo il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Dopo aver assunto il ruolo di mediatore principale tra russi e ucraini, ora si sta candidando come tramite tra Iran e Stati Uniti.

Nella giornata di ieri, Erdogan e il suo capo della diplomazia Hakan Fidan hanno avuto un colloquio di circa un’ora con il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amirabdollahian. Nel pomeriggio è stata annunciata una visita in Turchia nei prossimi giorni del presidente iraniano Ebrahim Raisi. Per domenica 5 novembre è atteso ad Ankara il segretario di Stato americano Antony Blinken. Incontri decisivi dato che tramite il finanziamento e il supporto militare a Hezbollah, l’Iran può cambiare gli equilibri nella regione.

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