Non molto tempo fa, l’ala sinistra del Partito democratico era una forza in ascesa sulla scena politica statunitense. Le due campagne presidenziali del socialista Bernie Sanders avevano mostrato che non è impensabile per un candidato con quest’etichetta acquisire un seguito nazionale. Intorno a queste campagne si era poi cristallizzata una coalizione – principalmente di giovani e minoranze nelle zone urbane – che aspirava a rivoluzionare i sistemi del welfare e della spesa pubblica del paese.

Nonostante le sconfitte di Sanders alle primarie del 2016 e del 2020, altri candidati con idee simili sono invece riusciti a farsi eleggere al Congresso e altre posizioni di rilievo. Prima fra tutte, la giovane e molto mediatica Alexandria Ocasio Cortez, attorno a cui si è costituito un gruppo di parlamentari molto attivi – la cosiddetta Squad – che per alcuni mesi ha monopolizzato l’attenzione nazionale, avanzando proposte “radicali” (per gli Stati Uniti) come il Medicare for all e il Green new deal.

Ancora durante i primi mesi della presidenza Biden sembrava che questa forza politica avesse il vento nelle vele, vista l’apparente svolta a sinistra della nuova amministrazione segnalata da proposte come l’Infrastructure bill e il programma di spesa sociale Build back better – che insieme avrebbero rappresentato il più grande piano di investimenti pubblici nella storia degli Stati Uniti dai tempi del New Deal. Perfino la destra repubblicana sembrava aver accettato questa narrazione, tentando di dipingere il neoeletto presidente come una marionetta della sinistra radicale.

Non è più così. Il piano d’investimenti pubblici di Biden, già molto diluito dalla dialettica parlamentare, langue ora al Congresso, senza molte prospettive di successo. Della Squad si parla ormai pochissimo. L’ultima volta che Alexandria Ocasio Cortez è riuscita a catturare le prime pagine dei giornali risale a più di un anno fa, quando si presentò sul tappeto rosso del prestigioso gala del Metropolitan museum of Art indossando un lungo vestito bianco con la scritta “tax the rich”: una messinscena giudicata di dubbio gusto anche da molti dei suoi più ferventi sostenitori. Alle prossime elezioni congressuali, i sondaggi prevedono un bagno di sangue per i democratici, che rischiano di perdere la maggioranza sia alla Camera che al Senato.

Come si spiega quest’eclissi? Ci sono ovviamente fattori strutturali che da sempre limitano gli orizzonti della sinistra socialdemocratica negli Stati Uniti: la cultura individualistica diffusa, che predilige l’ascensione sociale alla solidarietà di classe; il sistema elettorale bi-partitico, che costringe i socialdemocratici ad alleanze spesso svantaggiose con i liberal di centro; e poi il complesso sistema di contrappesi costituzionali, che rende molto difficile passare qualsiasi riforma sociale, pur a chi dispone della maggioranza parlamentare. Ma nulla di tutto ciò può spiegare la recente ascesa e il repentino declino dell’ala sinistra del Partito democratico americano. Alti e bassi di questo tipo richiedono un’analisi più congiunturale.

Compromessi

Paradossalmente, la vittoria contro Trump alle presidenziali del 2020 ha fatto più male che bene a questa parte politica. La figura polarizzante dell’ex-presidente era uno dei principali fattori che nutrivano il sussulto della sinistra radicale durante il suo quadriennio al potere. Senza un nemico comune così ingombrante, i socialdemocratici e i liberal di centro si trovano ora costretti a fare compromessi gli uni con gli altri, cercando di tenere insieme una coalizione quanto mai eterogenea, proprio a causa del successo dell’ala più radicale.

In quanto partner minoritari, i socialdemocratici si trovano in una posizione particolarmente scomoda. Uniformarsi alla linea Biden fa correre il rischio di diluirne l’identità specifica, scontentando la base. Non farlo incorre inevitabilmente nell’accusa di ostruzionismo. Anche se finora sono stati i centristi a imporre più veti al programma di Biden, è sempre più facile far passare i radicali per indisponibili al compromesso.

L’evidente imbarazzo dei membri della Squad nei confronti della guerra in Ucraina ne è un esempio emblematico. Storicamente, erano tutti stati fortemente critici dell’intervenzionismo americano, in nome della sproporzione tra spesa pubblica in patria e sostegno al cosiddetto military industrial complex. La settimana scorsa hanno approvato all’unanimità un piano di aiuti militari di un valore complessivo più volte superiore al costo medio annuale della presenza americana in Afghanistan. Pur cercando di avanzare qualche timida riserva, votare contro gli aiuti all’Ucraina avrebbe significato allinearsi con la corrente “putiniana” del partito repubblicano, di cui la sinistra del Partito democratico vorrebbe costituire la nemesi.

Strategia elettorale

Ma non è solo una questione di tattica parlamentare. Alla prova dei fatti, anche la strategia elettorale dei socialdemocratici americani ha mostrato debolezze di fondo. Le uniche vittorie di rilievo sono arrivate in circoscrizioni già saldamente democratiche, dove candidati centristi deboli o screditati si sono fatti prendere alla sprovvista nelle primarie. Quando invece l’establishment del Partito democratico si è mobilitato per tenere posizioni strategicamente o simbolicamente importanti, è sempre riuscito a sconfiggere i candidati più radicali – come fece Biden contro Sanders durante le primarie presidenziali o, più recentemente, il sindaco di Buffalo, vincendo le municipali da indipendente contro la candidata socialdemocratica che lo aveva sconfitto alle primarie del partito.

La scommessa di questa parte politica era, e rimane, di puntare su un elettorato che tradizionalmente vota poco: i giovani, soprattutto quelli con un alto tasso di educazione nelle zone urbane, e le minoranze etniche. Ma senza una reale struttura organizzativa capillare sul territorio, né un linguaggio capace di parlare alle classi lavoratrici in generale, non sono riusciti a fare brecce significative nell’astensionismo. Né si può dar per scontato che gli elettori di centro voterebbero per un socialista contro i repubblicani in una sfida diretta che per ora non si è ancora materializzata.

Perfino tra le minoranze etniche, soprattutto nelle zone peri-urbane e rurali, rimane una forte riserva di conservatorismo culturale che la sinistra americana ha sottovalutato. Ad esempio, in molte delle circoscrizioni a forte concentrazione ispano-americana del Texas, della Florida e dell’Arizona – dove Sanders aveva fatto bene contro Biden durante le primarie presidenziali del 2020 – Trump ha poi vinto con larghe maggioranze nello scontro con Biden.

Pensare che le minoranze etniche votino automaticamente “a sinistra” per il semplice fatto che la destra repubblicana cavalca posizioni restrittive sul tema dell’immigrazione è un’ingenuità che non tiene conto né di quali sono gli strati sociali più direttamente toccati dagli effetti dell’immigrazione sul mercato del lavoro, né dell’importanza della religione – e delle culture wars in generale – per questa parte dell’elettorato.

Cambiamento strutturale

Sarebbe tuttavia presto per decretare il tramonto definitivo della sinistra socialdemocratica statunitense. La forza politica che si è cristallizzata intorno alle campagne presidenziali di Bernie Sanders, e di cui Alexandria Ocasio Cortez, insieme ai vari altri membri della Squad, sono ormai, bene o male, alla guida rimane capace di una mobilitazione sociale straordinaria. Fenomeni di protesta come #MeToo e #BlackLivesMatter testimoniano della sua grande influenza culturale e mediatica, mentre proposte di legge come Medicare for all e il Green new deal continuano a riscuotere largo consenso nei sondaggi – ben oltre i recenti risultati elettorali di questa parte politica.

La prospettiva più realistica – forse non molto attraente per chi sperava di fare la rivoluzione dalla Casa Bianca già nel 2020 – è la consolidazione di un nucleo parlamentare e locale, minoritario all’interno del Partito democratico, ma non per questo completamente ininfluente. Scegliendo le proprie battaglie, i socialdemocratici statunitensi possono ancora pesare sull’orientamento complessivo del partito di cui sono costretti a far parte, specialmente considerati i margini strettissimi che rimangono per mantenere il controllo del Congresso alle prossime elezioni.

Più a lungo termine, il progetto di un cambiamento strutturale nelle politiche socio-economiche, ambientali ed estere del paese dipenderà dalla capacità di costruire pazientemente su questo nucleo, espandendone i consensi al di là della base elettorale già acquisita. Visto il progetto di cui si parla, sembra difficile che questo possa accadere senza un messaggio politico più esplicitamente universalista, che parli alle classi popolari in generale, invece che far leva su questioni identitarie e culturali, care alle élite urbane, ma deboli sul piano dell’elettorato nazionale.

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