La guerra santa non esiste. È vero che, nel corso della storia dell’umanità e fino a oggi, molti leader religiosi hanno, in un momento o l’altro, proclamato la guerra santa, con l’intento di schiacciare nel sangue coloro che si frapponevano sulla strada della loro idea di santità. In realtà, quei leader si sono quasi sempre messi al servizio di interessi che nulla avevano a che fare con la santità, la salvezza dell’anima o la vita eterna. Che lo volessero o no, che lo sapessero o no, la religione era una delle forme – spesso la forma – di quelle guerre, ma il loro contenuto era inequivocabilmente profano.

La confusione, spesso voluta, tra contenuto e forma, cioè tra i motivi reali dei conflitti e i loro travestimenti ideologici, non riguarda solo le religioni: nel Novecento, quando la forza di mobilitazione delle religioni tradizionali era ormai venuta meno dopo secoli di laicizzazione della politica, le popolazioni del mondo intero sono state mandate al massacro in nome di ideali “profani”: la civiltà, la democrazia, il comunismo, il fascismo e così via. Ma il meccanismo era lo stesso: la politica – e la guerra che ne è la continuazione con altri mezzi – è il terreno su cui interessi estremamente concreti si confrontano e si affrontano tra loro, e per questo è complicata da capire. 

Per spingere degli esseri umani a uccidere dei loro consimili e farsi uccidere da loro, occorre depurare la politica da tutti gli interessi di cui è l’espressione (che non sono, evidentemente, gli interessi di chi viene mandato a uccidere e farsi uccidere) e rivestirla di ideali facilmente comprensibili, e se possibile nobili. Non è un caso che tutte le popolazioni di tutti i paesi coinvolti in un conflitto siano convinte che il loro paese ha ragione e il paese nemico ha torto: «Il nemico è idiota»; ha scritto l’umorista francese Pierre Desproges, «crede che il nemico siamo noi, e invece è lui».

Identità politica

In questi ultimi decenni, in cui la parentesi della secolarizzazione della politica è andata progressivamente chiudendosi, il pretesto religioso dei conflitti è tornato prepotentemente in auge. Ma, appunto, il meccanismo resta lo stesso; magari più efficace perché, da sempre, la religione ha smosso sentimenti e passioni più delle ideologie laiche. Come ha scritto Bernard Lewis, «la religione può essere o meno una fonte di odio, ma fornisce sicuramente un’espressione di odio emotivamente appagante. Quando si combatte un nemico, non è assolutamente necessario odiarlo, ma è meglio per il morale, e quindi per l’efficacia militare».

Insomma, se si vogliono capire i fenomeni politici locali e internazionali in cui le religioni sono coinvolte in un modo o un altro, occorre studiare la geopolitica, non la teologia.

Prendiamo qualche esempio. Secondo l’Encyclopedia of wars (Charles Phillips e Alan Axelrod, 2005), la religione è la causa principale di 123 dei 1.763 conflitti storici noti (il 7 per cento). E secondo Matthew White, autore di The great big book of horrible things (2011), le religioni sono direttamente responsabili di 13 delle 100 atrocità più terribili della storia. Entrambi i libri menzionano, ovviamente, le Crociate, le «operazioni militari speciali» per la liberazione del Santo sepolcro dalle mani degli infedeli. Ma quando papa Urbano II lanciò la prima crociata (1095), il Santo sepolcro era nelle mani degli infedeli da 458 anni, e in quei quattro secoli e mezzo nessun papa aveva sentito l’urgenza di andarlo a liberare.

Quel che era cambiato non riguardava la religione, ma la politica: nel 1071, i turchi selgiuchidi avevano sconfitto a Manzikert l’esercito bizantino e conquistato la penisola anatolica e il Levante, mettendo a repentaglio sia il commercio tra il Mediterraneo e l’Asia che i redditizi pellegrinaggi per Gerusalemme (che gli arabi non avevano mai ostacolato). Perdipiù, nel 1054 si era consumata ufficialmente la rottura tra la chiesa d’occidente (Roma) e la chiesa d’oriente (Costantinopoli), e tutti i cristiani del Levante erano rimasti, per ragioni di cuore e di geografia, dalla parte di Costantinopoli. Tenendo conto anche solo di questi due eventi, la decisione di Urbano II diventa più comprensibile: ma da un punto di vista geopolitico, non religioso (anche se il papa, ha scritto Edward Peters, ne approfittò per uno strappo teologico, promuovendo l’agostiniana «guerra giusta» al rango di «guerra santa», con tanto di premio celeste immediato per i martiri della fede).

Lo stesso vale per la Guerra dei trent’anni, la guerra di religione per antonomasia. Anche in questo caso, però, lo studio delle relazioni politiche dell’epoca aiuta a capire più della religione che, anzi, ingarbuglia assai le cose. Quel conflitto fu infatti l’episodio più sanguinoso della plurisecolare competizione armata tra Francia e Impero per l’egemonia in Europa, in cui la Francia cattolica, guidata da due cardinali cattolici, si era alleata coi prìncipi protestanti tedeschi contro i prìncipi cattolici, sostenuti dalla Spagna e dal papa, allo scopo, essenzialmente, di impedire l’unificazione della Germania.

Appartenenza

Quel che è vero per il passato ha continuato a esserlo nel presente, nonostante la secolarizzazione (e forse anche grazie alla secolarizzazione). La religione è stata progressivamente despiritualizzata, per divenire sempre più una sorta di carta di identità politica e sociale: delle tre dimensioni tradizionali della fede – belonging, behaving, believing – la prima (l’appartenenza) diventava la più importante e la seconda (il comportamento, quello che Olivier Roy chiama l’«ortoprassia») diventava funzione della prima, il «segno particolare» che permette di distinguere di primo acchito un’appartenenza da un’altra. La terza dimensione, quella spirituale (l’«ortodossia»), sembra essere diventata accessoria.

Tipico, in questo senso, il caso dell’ostilità tra i protestanti e i cattolici in Irlanda del nord: i primi, discendenti di coloni britannici – anglicani e presbiteriani – sbarcati nell’Ulster agli inizi del Sedicesimo secolo; i secondi, autoctoni celtici e cattolici. All’epoca dei Troubles (1968-1998), la linea di faglia era identitaria e sociale, solo nominalmente religiosa. Martin Dillon, autore di God and the gun: the church and irish terrorism (1997), racconta un aneddoto (probabilmente apocrifo) di un individuo fermato di notte da un gruppo di personaggi in passamontagna e spinto contro un muro; «Sei cattolico o protestante?», gli chiedono minacciosamente gli incappucciati; «Veramente sono ateo», risponde il malcapitato; «Va bene», continuano imperterriti gli aggressori, «ma ateo cattolico o ateo protestante?».

Secondo un luogo comune, le guerre di dissoluzione della Jugoslavia negli anni Novanta si sono svolte lungo linee di faglia religiose, tra cattolici, ortodossi e musulmani. In Jugoslavia, però, la religione era diventata un fenomeno talmente marginale che, dal 1971, il termine «musulmano» fu usato per indicare ufficialmente il gruppo etnico degli slavi di tradizione islamica, anche se agnostici o atei, a fianco degli altri gruppi etnici (croati, sloveni, serbi, macedoni, etc.), ma non gli albanesi, i turchi e i rom, identificati per etnia e non sulla base della loro tradizione culturale musulmana. A differenza dell’India, dove i massacri intercomunitari sono facilitati dall’anagrafe (il nome proprio permette di distinguere indù e musulmani), nei massacri intercomunitari jugoslavi l’unico modo per distinguere un croato (cattolico) da un serbo (ortodosso) era obbligarlo a fare il segno della croce (diverso nelle due religioni): un letale esempio di “ortoprassia”.

Jihad e definizioni errate

E la jihad? Cosa intenda la teologia musulmana per jihad («sforzo [teso verso uno scopo]», secondo la traduzione della Treccani) lo lasciamo dire ai teologi musulmani; i quali hanno dissezionato il concetto e lo hanno spiegato in modi diversi e spesso contraddittori. Una parte di essi la interpreta prevalentemente in chiave militare (come il correttore automatico di Microsoft, che non ama le sfumature e suggerisce di scrivere «guerra santa» invece di jihad), e un’altra in chiave prevalentemente spirituale (la «jihad interna», lo sforzo per seguire la strada della fede). In mezzo, migliaia di gradazioni diverse, che lasciano al fedele la possibilità di scegliere a seconda delle inclinazioni personali.

Al di là delle diatribe teologiche (che nel mondo musulmano sono quasi sempre pertinenza dei governi), l’esperienza degli ultimi anni prova che l’idea secondo cui scopo della jihad (intesa come «guerra santa») sarebbe colpire gli infedeli o gli “occidentali” è del tutto sbagliata: secondo il Global terrorism database dell’università del Maryland, il 92,9 per cento delle 221.966 vittime di sedicenti jihadisti nel mondo tra il 2002 e il 2018 vivevano in regioni abitate quasi esclusivamente da musulmani (la maggior parte in Afghanistan, Iraq, Pakistan, Libia e Nord Nigeria).

Da un punto di vista politico, però, l’aspetto più rilevante è altrove. Anche ammettendo (benché, in molti casi, il dubbio sia lecito) che gli assassini in questione siano personalmente convinti che tagliare la gola al prossimo sia un atto di pietà religiosa, questo non basterebbe a definirli “jihadisti”, come invece viene fatto sistematicamente. I manicomi sono pieni di gente che crede di essere Napoleone, ma questo non fa di loro dei Napoleoni. Sembrerebbe una banalità, ma evidentemente non lo è: non basta pensare di essere qualcosa o qualcuno per esserlo veramente. In nessuna disciplina seria è ammessa l’autocertificazione: chi pratichi la medicina senza averne titolo non soltanto è escluso dalla professione, ma è anche sbattuto in galera ai sensi dell’articolo 348 del codice penale.

Le attività principali dei movimenti “jihadisti” che operano nel Sahel sono il traffico di droga, di armi e di esseri umani. Lo stesso vale per molti gruppi della guerriglia in Afghanistan, in Libia, in Somalia etc. Ma per essere trafficante di droga, di armi e di esseri umani non occorre essere musulmani: chiedete a qualsiasi agenzia di reclutamento della mafia e ve lo confermerà. Ma vi confermerà anche che se riuscite a mettere, sulle vostre attività criminali, una foglia di fico di rispettabilità, la giustificazione di una finalità superiore e nobile, le vostre capacità di reclutamento aumenteranno. A chi conosce anche sommariamente la storia di Boko Haram, in Nigeria, appare abbastanza chiaro che, se il movimento fosse nato una trentina d’anni prima, la sua foglia di fico sarebbe stata il marxismo-leninismo e non l’islam.

Insomma, che l’assassino si proclami “jihadista” non fa necessariamente di lui un jihadista. Ma quel che è ancora più importante, da un punto di vista tanto politico quanto psicologico, è che sarebbe meglio evitare di chiamarlo jihadista, anche se lo fosse veramente. Invece, è proprio quello che si fa di solito, in una coazione a ripetere che finisce per irrobustire le motivazioni dell’assassino.

Definire un gruppo di terroristi un “esercito” impegnato in una guerra significa dargli una dignità che non ha e che non merita. Proclamare che un manipolo di sbandati possa muovere guerra agli Stati Uniti o alla Francia significa trasformare dei nani in giganti e offrir loro un riconoscimento e un’aura che non possono che moltiplicarne la forza di attrazione. Elevare i terroristi al rango di “soldati” significa toglierli dal loro statuto sociale e politico (e spesso anche personale) di falliti e promuoverli a quello di combattenti per una causa. Significa fornire gratuitamente una motivazione forte a frotte di disperati in cerca di un senso da dare alla propria vita e, soprattutto, alla propria morte. Significa, insomma, accrescere la minaccia di futuri attentati.

Scopi diversi

Perché, allora, si continua a usare la retorica guerriera? Perché, in politica, nessuno può essere assolutamente attivo: anche il partito più impenetrabile e disciplinato è sempre, magari in minima parte, usato da altri per scopi diversi dai suoi. Quando però un gruppo politico è assolutamente passivo – è il caso dei terroristi – è inevitabile che tutti ne approfittino e lo utilizzino per i loro fini. Durante gli anni di piombo qualcuno suggerì che il modo migliore di depotenziare le Brigate rosse fosse smettere di parlarne. Nessuno lo fece, perché quella variabile impazzita era, da una parte, una pedina del gioco politico di tutti i partiti e, dall’altra, permetteva ai media di incrementare il loro giro d’affari.

Sulla paura del terrorismo, si sa, sono state costruite strategie politiche nazionali (per fare incetta di voti) e internazionali (per giustificare interventi armati). Nella loro infinita vacuità politica e morale, i brigatisti hanno sempre lavorato per altri; nella loro infinita vacuità politica e morale, i terroristi dei giorni nostri continuano a lavorare per altri. Gli altri non possono che rallegrarsene, e sfruttare questa manodopera a basso costo politico e morale per i loro fini. E questo significa che il mito della “guerra santa” ha ancora dei bei giorni (e tante reclute) davanti a sé.

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