Parlando ai circoli della politica estera moscovita, Vladimir Putin la settimana scorsa ha dichiarato che ci troviamo oggi su una «frontiera storica»: davanti a noi si estende il più pericoloso e imprevedibile decennio dalla fine della Seconda guerra mondiale. Secondo il leader del Cremlino, il gioco sporco delle élite occidentali, conniventi con l’egemonia parassitaria degli Stati Uniti, ha condotto il mondo in una situazione che ha «i prerequisiti di una rivoluzione». 

Il concetto di frontiera

Esistono quattro accezioni del termine frontiera che si rivelano in qualche misura pertinenti rispetto al dibattito sul conflitto russo-ucraino.

La prima accezione presenta la frontiera come linea di confine di uno stato. Una demarcazione ufficialmente delimitata e riconosciuta, dotata solitamente di sistemi di difesa, che richiama anche l’idea del varco dove è solitamente possibile passare, superati determinati controlli: espressione, dunque, di sovranità territoriale e amministrazione della popolazione. Il confine di uno stato indipendente, l’Ucraina, è stato palesemente violato dalla Russia, che difende l’annessione con il ricatto nucleare e dietro lo scudo del proprio potere di veto alla Nazioni unite: abortito il primo tentativo di defenestrare il governo di Kiev, tanto nel Donbass come nel sud ucraino gli avanzamenti e gli arretramenti delle linee del fronte, la manipolazione dei flussi di rifugiati e nuove reclute, il dispiegamento di simboli e pratiche amministrative (di)segnano oggi uno dei tanti confini di fatto che esistono al mondo. Un fronte di guerra oltre il quale il comando russo dà sfoggio del proprio repertorio siriano, prodigando nella distruzione delle infrastrutture civili ucraine, in spregio al diritto bellico.

Non lontana da questa accezione c’è la nozione di zona di frontiera, ovvero l’area a cavallo della linea di confine che separa due stati, nella quale tipicamente si osservano dinamiche e pratiche economiche diverse rispetto al resto del paese, talvolta perché vigono specifici accordi e facilitazioni per la libera circolazione degli abitanti e lo scambio di merci e servizi. Le regioni di frontiera sono spesso uno spazio economico, culturale e sociale distinto, dove sfuma l’idea del territorio come rigida compartimentazione spaziale presidiata dallo stato sovrano, contenitore della nazione.

Si possono ricordare, come esempio, gli accordi di cooperazione regionale che, fino ai primi anni Duemila, rendevano permeabile il versante russo e quello finlandese della Karelia. L’esistenza di zone di frontiera ci ricorda anche che la storia dello stato nazione-moderno, non è solo storia di eserciti, ma anche di contrabbando e banditi, dove ciò che è legale per lo stato e ciò che è ritenuto legittimo (in quanto necessario o conveniente) dalla popolazione non necessariamente coincidono. Al tempo stesso, questa nozione ci interroga circa in quale misura l’Ucraina si candidi, domani, a essere zona di frontiera europea: un territorio che attira massicci investimenti militari ed economici (esternalizzazione, ricostruzione), senza allinearsi per questo all’impianto normativo europeo, per esempio in materia di protezione dei diritti politici ed economici.

La terza accezione di frontiera indica una regione di confine, un punto di partenza per l’espansione colonizzatrice, una regione scarsamente e recentemente colonizzata. Questa dimensione porta con sé riflessioni attorno alle terre cartografate (spesso definite come “di nessuno”, terra nullius), dunque messe a valore dai coloni che si insediano appropriandosene, spesso a mezzo di spoliazione violenta (asservimento, “bantustanizzazione”, pulizia etnica) ai danni di popolazioni locali, la cui identità politica è disconosciuta.

In Ucraina l’idea di frontiera coloniale ci riporta alla storia della proiezione russa verso i mari caldi, all’opera di conquista e russificazione e al reiterarsi di pratiche di assoggettamento e disconoscimento. Discostandosi dal trattamento sovietico della questione ucraina, non avendo possedimenti oltremare da colonizzare, Iosif Stalin ha imboccato con decisione la strada dell’auto-colonizzazione del proprio entroterra, forzando le coltivazioni ucraine a cedere la propria ricchezza ai pianificatori centrali. Adolf Hitler, per suo conto, vedeva nella conquista della ricca terra nera di Ucraina una risorsa che avrebbe trasformato la Germania in una vera potenza mondiale. Questi due progetti di colonizzazione hanno prodotto una decina di milioni di morti.

Esiste infine, la nozione di frontiera come limite estremo, punto di massimo sviluppo di una dottrina. Questa accezione include l’idea della linea che separa ambiti o ambienti differenti, e dunque oltre la quale si entra in una situazione o all’interno di una concezione differente. Ad essere chiamati in causa qui sono i principi regolatori dell’ordine internazionale, dai principi-cardine della Carta delle Nazioni unite, a quel rules-based order che si basa sulla pratica del multilateralismo e della governance globale, e che oggi – in un mondo che mostra propensione alla multipolarità – appare esplicitamente sfidato su più versanti.

Tentativi di ordine mondiale

Sono passati tre decenni dalla proclamazione dell’indipendenza ucraina, e altrettanti ne sono trascorsi da quell’11 settembre 1991 in cui il presidente americano George Bush annunciava un nuovo ordine mondiale. Tramontava la Guerra fredda e iniziava la prima Guerra del Golfo: gli Stati Uniti dispiegavano truppe e televisioni nella liberazione del Kuwait, invaso e annesso da Saddam Hussein, che lo riteneva provincia irachena. Si è trattato, a ben vedere, dell’ultima volta che un paese ha provato a conquistare, fagocitandolo, un altro paese riconosciuto internazionalmente.

Fondata sullo scollamento fra economia reale e finanza (ovvero fra territorio e ricchezza), la globalizzazione sembrava aver disincentivato la conquista territoriale. Negli ultimi trent’anni gli Usa si sono rivolti alle istituzioni multilaterali, confidando nell’integrazione della Russia e sui benefici di cui essa avrebbe dovuto, ai fini di prevenire il sorgere e consolidarsi di posizioni revisioniste rispetto all’ordine internazionale.

Questo tentativo, condotto in parallelo a una transizione post-socialista assistita dall’occidente secondo precetti neoliberali, ha mostrato i suoi evidenti limiti. La guerra in Ucraina e le dinamiche di politica internazionale che essa mette in moto, però, non riguardano oggi solo la Russia come potenza revisionista che persegue per sé un diverso status nelle gerarchie internazionali, ma anche la Cina, candidata a superpotenza, e una serie di paesi emergenti – Brasile, India e Sudafrica in primis – che sull’Ucraina non si sono allineati con le sanzioni, e tantomeno con l’invio di armi.

La chiamata a raccolta delle democrazie a difesa dell’ordine internazionale liberale e della pace, contro l’azione destabilizzante dei regimi autoritari, fa i conti con due sfide: sul proprio versante domestico, il condizionamento di forze populiste-tradizionaliste coniugate con nazionalismo e sovranismo (a cui lo stesso panorama ucraino, a ben vedere, non è alieno), che avversano i diritti civili e sociali e minano i processi di integrazione regionale come l’Unione europea.

Certamente il conflitto ha avuto un effetto strutturante sul posizionamento politico di molti leader e partiti politici nelle democrazie occidentali, compattando lo spettro “nel campo atlantico ed europeo”: tuttavia, una guerra che si annuncia lunga e costosa lascia spazio nel tempo a rovesci elettorali, cambi di governo, smarcamenti, prese di distanza e differenziazioni, sulle quali il Cremlino fa conto.

Sul versante internazionale, invece, Stati Uniti e alleati mostrano difficoltà nel promuovere una più ampia coalizione con il resto del mondo, quel mondo che era frontiera coloniale quando settant’anni fa è stato disegnato l’ordine internazionale liberale, e nel quale oggi stenta a riflettere i propri concreti interessi, non trovandolo né particolarmente internazionale né particolarmente liberale.

A woman walks past a destroyed hospital building, November 6, 2022, Chernihiv, Ukraine. Photo/Ondrej Deml (CTK via AP Images)

I calcoli sbagliati di Mosca

Per sua parte, Vladimir Putin è costretto a magnificare un assunto-chiave del pensiero strategico russo contemporaneo: l’idea che la sconfitta sul campo di battaglia non significa, di per sé, la sconfitta politica, poiché questa è mediata dalla rappresentazione della realtà, e con la maggior vulnerabilità delle democrazie rispetto all’opinione pubblica, soprattutto in un’epoca di disintermediazione social-mediatica.

Dopo aver sbagliato molti calcoli, Putin punta sulla propria tenuta grazie alla coercizione e alla capacità di sopportazione dei russi, che legge come nerbo morale della nazione. La capacità della Russia di sostenere una guerra a medio-lungo termine dipende, in ultima analisi, da quanto le circostanze internazionali peseranno sulla sua scarsa capacità di conservare e sostituire le proprie dotazioni umane e materiali, ma anche da come – elezione dopo elezione – si andranno riconfigurando le volontà politiche nella sfera internazionale, inclusa la volontà di rifornire militarmente Kiev per respingere l’invasione.

L’esercito russo ha mostrato forti limiti e l’impossibilità di portare a compimento la missione che il decisore politico gli ha affidato in Ucraina: la energy warfare può rallentarne l’azione e far emergere contraddizioni; tuttavia, difficilmente la sola capacità distruttiva in cui i russi hanno mostrato di eccellere cambierà il corso degli eventi sul piano militare. Nel complesso, nell’età contemporanea, inaugurata dalle rivoluzioni industriali, in cui il controllo delle tecnologie e della connettività rappresenta l’elemento decisivo nella determinazione dell’ordine globale, l’espansionismo russo – certamente mosso anche dalla ricerca di risorse (Donbass e quadrante africano incluso) – non può competere rispetto a potenze ben più centrali rispetto alle supply chain globali, tanto più se gravato di sanzioni. 

Difficilmente Mosca riuscirà a rigenerare le fondamenta delle sue capacità militari senza l’aiuto della Cina. Quest’ultima non ha però interesse a farsi dettare l’agenda da Mosca, che definisce un partner strategico, ma non un alleato. Certo Pechino insiste sulla narrazione che presenta la guerra causata dall’espansionismo occidentale a guida americana, ma nella realtà appare piuttosto attenta nel rispondere alle richieste russe, costringendo Mosca – rimasta con molti pochi amici – a ricorrere ai droni iraniani, e a concedere spazio al presidente turco Erdogan.

Gli interessi di Erdogan

Non è casuale l’investimento politico che Erdogan ha fatto sul conflitto in Ucraina. Tale investimento non è solo motivato dall’interesse al mar Nero e alla Crimea, ma anche, con ogni evidenza, in vista della legittimazione del costante intervento turco oltre confine: storicamente Cipro, ma nel presente il nord della Siria e dell’Iraq, dove nell’ultimo decennio, contro le formazioni islamiste e jihadiste sostenute o tollerate proprio dalla Turchia, si sono articolati i progetti di confederalismo democratico a guida curda.

In difficoltà sul piano politico ed economico domestico, il disegno neo-imperiale di Erdogan si gioca le proprie chances politiche in politica estera, intrattenendo con la Russia – fra Libia, Siria, Azerbajan-Armenia e altri scenari regionali –, un rapporto di rivalità e cooperazione. Il perseguimento del proprio interesse nazionale in chiave neo-imperiale e con vistosi scivolamenti autoritari porta la Turchia a disallinearsi rispetto agli altri paesi Nato, rifiutando di adottare le sanzioni, giocando sul teatro ucraino una serie di ruoli, che vanno dalla fornitura di droni da combattimento all’Ucraina, all’acquisto di sistemi d’armi russi, passando per il successo della mediazione in materia di porti e cereali, e l’offerta di ospitalità e pacchetti turistici a basso costo.

Il fronte della guerra

Le temperature dell’inverno sono già arrivate sul fronte orientale ucraino. Sarebbe un errore considerare stabile il quadro della guerra in Ucraina. La Russia, dopo aver subito una serie di controffensive, cercherà di consolidare il fronte, complici le condizioni atmosferiche e il freddo, che rallentano le operazioni. Gli ucraini, per contro, sono obbligati a giocare all’attacco, rafforzando le proprie difese aeree mentre continuano a colpire per erodere la macchina bellica dell’invasore.

Sarebbe un errore considerare questo quadro bellico stabile, congelato. Fino ad oggi, dal 24 febbraio, abbiamo visto solo escalation. La situazione può evolvere rapidamente: non c’è nulla di rassicurante nello spostamento di popolazione sul fronte di Kherson, o nelle considerazioni che vengono rivolte in questi giorni dal Cremlino rispetto all’impiego di armi non convenzionali. Sarebbe un errore anche confidare nel fatto che Cina, India e Turchia – i cui interessi spesso divergono e confliggono – possano in qualche modo intraprendere un’azione diplomatica capace di invertire il senso dell’escalation, mettendo sul tavolo un’ipotesi diplomatica di pace: è assai probabile che ciascuno continuerà a cercare di estrarre benefici con la Russia su base bilaterale.  

Con la fine della Guerra fredda la sfida ideologica sembrava destinata ad essere de-territorializzata, avendo come protagonista la dimensione della democrazia, della rule of law e del libero mercato. Tuttavia, Vladimir Putin vede la Storia non certo come il dispiegarsi delle libere volontà verso la governance dei problemi comuni. La Storia non è mossa da norme e mercati, ma dalla forza (forze occulte incluse, se si guarda ai circoli moscoviti) nel perseguimento del proprio stretto interesse: il progetto politico putiniano, dall’incipit con seconda guerra di Cecenia in avanti, è segnato dal fuoco e dal sangue di campagne militari, in un crescendo di assertività nel controllo del territorio.

Molti indizi fanno pensare che il Cremlino puntasse in Ucraina a un’azione risolutiva che, come nelle precedenti occasioni, palesasse le divisioni e l’ipocrisia di cui si nutre un nemico che è forte solo nella misura in cui esso non è sfidato da una leadership coraggiosa. Oggi, per quanto Putin possa decidere l’escalation, considerati i vistosi limiti della performance militare e i vincoli economici, è assai improbabile che sarà in grado di controllare, fino a determinarlo, l’impatto della sfida politica che ha lanciato all’ordine internazionale. È invece più probabile che saranno altre potenze e concatenazioni di circostanze a imprimere la direzione del cambiamento internazionale, mentre la Russia dovrà a lungo fare i conti con un quadro di dissesto domestico che rischia di comprometterne la sovranità così tanto celebrata.  

La strategia occidentale

Pur avendo mancato il bersaglio nel resto del mondo, la narrazione democrazia versus autoritarismo ha aiutato la mobilitazione dell’occidente a difesa dell’Ucraina, infondendo nella comunità euroatlantica il senso di unità e comune proposito che era stato fortemente compromesso durante la presidenza Trump. Tuttavia, quando è stato loro chiesto di condannare la Russia per atrocità commesse in guerra, molti paesi africani si sono ben guardati dallo schierarsi, denunciando l’ipocrisia occidentale nell’applicare diversi pesi e diverse misure, e mirando a tenersi le mani libere.

In altre parole, l’esigenza – particolarmente sentita dalla presidenza Biden – di ricompattare anche ideologicamente le democrazie, e soprattutto le due sponde dell’Atlantico, ha prediletto una narrazione strategica che, mettendo aspetti quali indipendenza territoriale e politica in secondo piano rispetto ad altri come democrazia e diritti fondamentali, è risultata meno efficiente nel creare un consenso globale più ampio.

Militarismo, liberalismo e democrazia

Oltre al “resto del mondo”, quello che un tempo ha costituito la frontiera coloniale, c’è un’altra voce, storicamente presente nel dibattito su pace e guerra, che fino ad oggi è rimasta relativamente fuori fuoco. Il ruolo delle mobilitazioni dal basso appare importante nel preparare il terreno in cui è possibile sottrarre il conflitto alla sua matrice più identitaria, territoriale e militarista, riarticolando ipotesi politiche – smentendo l’idea che la diplomazia e il peacebuilding agiscano solo nel momento in cui, infine, tacciono le armi, pena compromettere gli esiti delle giuste cause.

Esistono innumerevoli evidenze empiriche che mostrano l’infondatezza di tale comune rappresentazione nei conflitti contemporanei. Se il carico di ideologia e i paradossi della deterrenza nucleare non porteranno il conflitto verso un’escalation che innesca una guerra molto più ampia e intensa, prima o poi il conflitto proporrà il momento in cui la diplomazia prende la parola, riportando la guerra sul terreno spesso amaro del compromesso e della Storia.

La vicenda ucraina non pone solo il problema della pace, parola che fino ad oggi sembrava scomparsa dal frasario del dibattito pubblico, così intriso di immaginario geopolitico legato a sempre cangianti teorie della vittoria. In un mondo segnato da aspiranti potenze impegnate nella competizione per l’egemonia fin nei confini delle periferie, vale la pena tornare a interrogarsi, oggi, sui meccanismi di (ri)produzione violenta di confini, sfere di interesse e influenza, gerarchie post-coloniali e retaggi imperiali, così come sulle forme che assume la resistenza ai medesimi. In un mondo sempre più policentrico, quale spazio (if at all) si prospetta per l’Unione europea, strano animale allevato attorno a un’ipotesi disarmata di pace e prosperità post-sovrane? In un quadro globale segnato dall’urgenza indifferibile delle scelte legate alla transizione ecologica, occorre chiedersi come leggere oggi il rapporto fra militarismo, liberalismo e democrazia.

Riflettendo sul conflitto in Ucraina, Francis Fukuyama ha recentemente invitato a ripensare il nesso fra liberalismo e nazionalismo, sostanzialmente accettando sia la critica conservatrice secondo cui le società liberali non forniscono un forte nucleo morale comune attorno a cui costruire la comunità, sia l’idea che gli stati rimangono gli attori politici importanti, in quanto gli unici in grado di esercitare l’uso legittimo della forza.

Il liberalismo va difeso dagli estremi, sostiene Fukuyama: identità nazionale e universalismo liberale trovano punti di equilibrio che impediscono al nazionalismo di deragliare trasformandosi in nazionalismo aggressivo. Si direbbe quasi che lo spavento per il nemico, un’invasione russa che fa presagire disordine e impoverimento a venire (Emmanuel Macron ha parlato della “fine dell’èra dell’abbondanza”) porti i teorici della fine della Storia a riconciliarsi con il nazionalismo conservatore.

Proprio qui, nella designazione del nemico, si trova un limite scivoloso del pensiero liberale, tanto più in situazioni di polarizzazione e crisi, in cui il consenso diventa elettoralmente elusivo. In altre parole, quando, per difendere il bene (e l’ordine) dall’illiberalismo, si procede di emergenza in emergenza, fra stati d’eccezione e crescente criminalizzazione degli estremi, nell’implementazione del programma economico liberale. Le traiettorie ideologiche di trent’anni di transizioni russa, ucraina e centro-europea, fra le altre, illustrano come questo programma abbia alimentato nel tempo un problema di ordine internazionale. Esse pongono il problema del grado in cui la democrazia liberale sia destinata, per restare egemone, verso una china conservatrice se non autoritaria.


Il testo è un estratto, riadattato, dal libro di Francesco Strazzari: Frontiera Ucraina. Guerra, geopolitiche e ordine internazionale (Il Mulino, 2022).

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