La crisi del multilateralismo non è una novità di questi ultimi mesi: le difficoltà del sistema che fa perno intorno all’Organizzazione delle Nazioni unite (Onu) durano già da diversi anni e l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia non ha fatto altro che acuire ulteriormente le linee di frattura che stavano facendo “scricchiolare” l’ordine internazionale da parecchio tempo.

Probabilmente, ciò che ci sta insegnando l’attuale crisi è che l’atteggiamento dello struzzo (ovvero quello di negare i problemi nascondendo la testa sotto la sabbia) non funziona più. Si impone dunque un cambiamento delle “regole del gioco”, da definire sulla base dei rapporti di forza di oggi che certamente non corrispondono più a quelli di ottant’anni fa quando, alla fine della Seconda guerra mondiale, fu eretta una nuova comunità internazionale sulla base di regole e princìpi che vigono ancora oggi.

Le strade per pervenire a una riforma sono solo due: attraverso un processo di dialogo e compromesso fra le potenze, oppure attraverso un confronto più rigido che potrebbe comportare anche l’uso della forza. Poiché sembra scontato preferire la prima alla seconda ipotesi, vediamo dunque come si potrebbe fare per gettare le basi di un processo di riforma “pacifico” del sistema internazionale.

Una galassia di istituzioni

Come si diceva, se la crisi in Ucraina è servita a qualcosa, è servita a dimostrare (sempre che ce ne fosse bisogno) l’impotenza dell’Onu e della “galassia” di istituzioni e agenzie internazionali a essa collegate. Il voto in assemblea generale sull’aggressione di Mosca nei confronti di Kiev non ha portato infatti ad alcun risultato tangibile oltre a quello di evidenziare la netta divisione tra potenze: da una parte l’occidente con Stati Uniti e Unione europea in testa; dall’altra, la Cina che si è guardata bene dal condannare la Russia, anche in nome della cosiddetta “amicizia senza limiti” che era stata siglata proprio a febbraio da Vladimir Putin e Xi Jinping.

Ottant’anni dopo la sua creazione si continua a parlare di una revisione dell’ordine internazionale onusiano, ma a causa di interessi e veti contrapposti non si è mai ottenuto nulla. L’unica grande (e positiva) novità degli ultimi trent’anni è stata l’affermazione dell’Ue come entità sovranazionale e soggetto geopolitico di una certa rilevanza, seppur con i limiti che conosciamo (non ultimo quello di non far parte del Consiglio di sicurezza a vantaggio di Francia e Regno Unito, che si guardano bene dal rinunciare alla propria poltrona).

In parallelo, negli ultimi anni abbiamo assistito alla proliferazione di organizzazioni e gruppi regionali o ristretti da parte di stati con interessi comuni, ma con poteri e mezzi molto limitati: pensiamo in primo luogo al G7, ma anche al G20 e ai Brics, e alle varie aree di libero scambio o di cooperazione economica che sono fiorite in molte regioni emergenti, dall’Asia (con l’Asean) al Sudamerica (con il Mercosur).

Ovviamente va menzionata anche la Nato che, tra tutte queste organizzazioni, è probabilmente l’unica ad avere dimostrato di saper funzionare e resistere all’usura del tempo. Il segreto? Un raggio d’azione (relativamente) circoscritto e un perimetro d’azione chiaro, caratteristiche che le hanno consentito una rivitalizzazione in occasione di quest’ultima crisi portando persino a un ulteriore allargamento. L’esatto contrario dell’elefantiasi di cui è stata protagonista l’Onu attraverso la creazione di un numero probabilmente eccessivo di organizzazioni funzionali come quelle economiche, sociali, ambientali o più prettamente politiche.

Con il passare degli anni e il tramonto dell’ormai vecchio sistema internazionale dominato esclusivamente dagli Stati Uniti, molte di queste istituzioni hanno perso la propria ragion d’essere. A partire dal Consiglio di sicurezza, la cui sostanziale paralisi si ripercuote a cascata sul funzionamento delle altre organizzazioni onusiane.

Finché l’organo che dovrebbe occuparsi di gestire la governance globale non subirà una profonda trasformazione a partire da una nuova composizione della sua membership e con regole diverse per la sua nomina, con un peso maggiore ad esempio dell’Unione europea e dall’abolizione del diritto di veto con criteri diversi di maggioranza, sarà difficile ipotizzare una rinascita delle Nazioni unite.

La fine del sistema

Anziché prendere atto della progressiva crisi in cui versa questo sistema, si è invece cercato di difendere lo status quo, accettando in parallelo anche una evoluzione (o involuzione?) del diritto internazionale con principi quali il diritto di intervento, che dovrebbero essere invece considerati lesivi della sovranità degli stati.

Si è arrivati al punto di considerare legittima l’invasione (del tutto ingiustificata) di uno stato sovrano ai danni di quello confinante sulla base di motivi tutti da dimostrare come l’esigenza di “denazificare” il paese invaso, e di non chiamare più tali azioni con il nome più appropriato, “guerra”, utilizzando invece perifrasi tanto fantasiose quanto pericolose come “operazione militare speciale”.

Bisognerebbe invece accettare la constatazione per cui, come dice Ray Dalio nel suo interessante libro Principles for dealing with the changing new order, tutti gli imperi hanno avuto un loro inizio, un apice e una conclusione. Anche l’attuale sistema internazionale, nato dalla Seconda guerra mondiale e dalla Conferenza di Bretton Woods, ha conosciuto lo zenit con la leadership americana, ma siamo arrivati a un momento in cui si impone una ricostruzione.

Guardiamo al mondo attuale: gli elementi di divisione e contrasto sono talmente forti che le principali potenze potrebbero trovare quasi conveniente sedersi attorno a un tavolo e rivedere insieme le regole. Una conclusione perfettamente ragionevole, ma che non si realizzerà perché gli interessi specifici prevalgono sempre sull’interesse generale e nessun paese – tra quelli che ricoprono posizioni di privilegio consolidate nel tempo – è disposto a cedere il proprio posto. Che fare, dunque?

Verso un nuovo ordine

L’unica via è procedere gradualmente, tenendo relativamente bassa l’asticella dell’ambizione. Si potrebbe pervenire ad esempio a un sistema improntato a una maggiore regionalizzazione (assecondando dunque le tendenze attualmente in atto) che sia però incardinato nel quadro di alcuni grandi principi universali che possano essere definiti attraverso una  grande conferenza internazionale: la disciplina del diritto di intervento, il nuovo diritto internazionale, sulla Terra e nello Spazio, il diritto alla salute, all’ambiente, la tutela dei diritti umani e dell’uguaglianza tra individui.

Bisognerebbe partire da idee e temi prima che dalle organizzazioni esistenti, che hanno già dato prova di non essere più efficaci, ovviamente restando consapevoli del fatto che tale processo non potrà essere concluso dall’oggi al domani ma che richiederà tempo, pazienza e disponibilità da parte di tutti gli stati, sulla base del riconoscimento per cui alcune grandi sfide attuali riguardano l’umanità intera e non possono essere vinte con risposte parziali ed egoiste.

Per costruire un nuovo ordine internazionale partendo dalle fondamenta, ci può venire in aiuto l’esempio virtuoso dell’Unione europea, nata e cresciuta passo dopo passo intorno al primo embrione rappresentato dalla Ceca, Comunità europea del carbone e dell’acciaio. La storia dell’integrazione europea può davvero servire da esempio e modello per un nuovo ordine globale che parta dalla condivisione di alcuni valori chiave, senza avere la pretesa di dare vita a tutti i costi a un mitico “governo mondiale”, rappresentativo delle potenze del globo, che non avrebbe alcuna reale efficacia. La futura casa comune potrà essere costruita solo procedendo con piccoli passi da parte di tutti, conciliando interessi divergenti con alcuni obiettivi che non possono essere invece raggiunti se non attraverso una vera cooperazione internazionale.  

© Riproduzione riservata