Il conflitto in Ucraina dura ormai da tre mesi e si sta avviando a diventare una guerra di posizione e di logoramento, vista l’impossibilità di entrambe le parti in campo di prevalere l’una sull’altra. Diversi analisti, commentatori ed esponenti politici hanno stigmatizzato questa situazione in quanto prolungherebbe oltre misura scontri e violenze, non facendo altro che rimandare l’esito di una guerra già scritto in partenza per l’evidente disparità delle forze in gioco.

Responsabili di questa situazione sarebbero l’Unione europea, soprattutto attraverso la fornitura di armi all’Ucraina, ma soprattutto gli Stati Uniti, che starebbero di fatto combattendo una proxy war, ovvero una guerra per procura che strumentalizza Kiev per opporsi alla Russia con l’obiettivo di indebolirla fino al punto da stimolare un regime change portando alla caduta di Vladimir Putin. Le cose stanno andando davvero così?

Fratture in corso

Non c’è dubbio che l’amministrazione democratica di Joe Biden abbia un atteggiamento verso la Russia più ostile di quello mantenuto dalla presidenza Trump (il quale però era anche tenuto sotto scacco da Putin a causa delle fughe di notizie e gli attacchi cyber) e che tra gli obiettivi della Casa Bianca ci sia quello di indebolire Mosca nel quadro di una partita geopolitica più ampia. Tuttavia, va anche ricordato che – parentesi trumpiana a parte – la fermezza nei confronti della Russia è una costante nella politica estera statunitense, che affonda le sue radici nella Guerra fredda.

Una posizione che storicamente è stata condivisa in maniera piuttosto trasversale dall’establishment americano e che si è consolidata da quando si è dovuto prendere atto dell’impossibilità di accogliere la Federazione russa nella “famiglia” delle potenze occidentali. Infatti, tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, l’ammissione di Mosca nel G8 e il tentativo di avvicinarla alla Nato (fase che raggiunse lo “zenit” con l’accordo siglato a Pratica di Mare nel 2002) avevano creato forti aspettative sulla possibilità di creare un grande spazio per le democrazie liberali che andasse dall’Alaska alla Siberia.

Purtroppo, la deriva autoritaria e nazionalista di Putin e l’invasione della Crimea nel 2014 hanno creato una frattura che in questi ultimi otto anni non è stato possibile ricomporre. Si può dire che il percorso fosse già stato scritto da quando apparve evidente quanto fosse irrealistico pretendere il rispetto degli accordi di Minsk: di fatto furono gettate le basi per una Guerra fredda “non dichiarata” fino al 24 febbraio di quest’anno.

Oggi, in seguito all’invasione dell’Ucraina, di cui l’occidente e la Nato non hanno alcuna responsabilità, la frattura si è ampliata al punto che è quasi impossibile ipotizzare un ritorno a rapporti “normali” nel breve periodo. Anche se Kiev e Mosca giungessero a un cessate il fuoco e a un accordo di pace – circostanza ovviamente auspicabile, ma al momento ancora improbabile – pensare che tra gli Stati Uniti e la Russia torni il sereno in un solo colpo è pura utopia. Il punto vero, dunque, è prendere atto di questa situazione ed evitare che le crepe nel sistema internazionale si moltiplichino ulteriormente: è su questo versante che si dovrebbero concentrare i maggiori sforzi diplomatici e strategici di Joe Biden.

Il riposizionamento degli Usa

La strategia del presidente statunitense non può prescindere dalla situazione politica interna. I repubblicani stanno riacquistando forza mentre il sostegno popolare per Biden in questi ultimi mesi si è ridotto: oltre a un calo di consensi fisiologico che più o meno tutti i leader in carica devono scontare, il governo deve affrontare complessi  problemi in campo economico come l’inflazione più alta degli ultimi quarant’anni.

Gli Usa hanno un grande vantaggio rispetto all’Europa, ovvero la sostanziale indipendenza energetica dalla Russia che permetterà di evitare un rallentamento marcato della crescita economica; ma la normalizzazione monetaria già iniziata dalla Federal reserve potrebbe avere un forte impatto sul mercato del credito americano se non verrà portata avanti con cautela e gradualità, dopo anni di disponibilità di capitali a basso costo.

Insomma, non tutti gli sforzi della Casa Bianca possono essere dedicati alla situazione internazionale, ma Biden deve “guardarsi le spalle” soprattutto in vista delle elezioni di mid-term in programma tra pochi mesi: una sconfitta per i democratici sarebbe molto grave perché rischierebbe di trasformare Biden in una “anatra zoppa” già a metà del suo primo mandato, e darebbe nei fatti il via alla campagna elettorale per le presidenziali del 2024. Un appuntamento in vista del quale Trump sta già scaldando i motori ritenendo possibile un suo ritorno. Sarà interessante vedere quali priorità prevarranno agli occhi dell’opinione pubblica statunitense: se le preoccupazioni per l’economia – cui sono tradizionalmente più vicini i repubblicani –, o le motivazioni di carattere internazionale e rispetto per i valori democratici e i diritti umani che sono motivazioni “di bandiera” del partito democratico.

Quel che è certo è che Biden, rispetto al suo predecessore, sta dedicando sforzi molto maggiori al riposizionamento degli Usa a livello internazionale dopo anni in cui unilateralismo e utilitarismo erano stati i princìpi cardine di una politica estera che aveva messo in discussione il sistema di alleanze costruito da Washington nel corso dei decenni, in primis la Nato e il rapporto con l’Europa.

Le relazioni transatlantiche, già tornate centrali come reso evidente l’anno scorso da alcuni episodi chiave come la fine della guerra commerciale intrapresa da Trump, hanno ricevuto nuova linfa (in maniera in parte inaspettata) con l’invasione russa dell’Ucraina. Il riarmo della Germania, l’aumento del bilancio per la Difesa in vari paesi (tra cui l’Italia), la richiesta di entrare nell’Alleanza da parte di stati storicamente neutrali come Finlandia e Svezia sono episodi che contribuiscono a ridare slancio alla Nato e che probabilmente Putin non aveva opportunamente considerato all’alba della cosiddetta “operazione militare speciale”.

La partita in Asia

Se a questi fattori uniamo anche i propositi – seppure ancora a uno stato embrionale – europei di dare vita a una Difesa comune con il lancio dello Strategic Compass (con tempi e modi ancora da definire nonostante la recente decisione di istituire una forza di risposta rapida di 5.000 uomini), tutto ciò non può che fare piacere agli Stati Uniti, la cui priorità geostrategica attuale è la regione dell’Indo-Pacifico.

L’attuale amministrazione non ha mai fatto mistero che il proprio principale obiettivo è il contenimento anti-cinese, in funzione del quale si sta mettendo in atto il cosiddetto pivot to Asia: obiettivo che del resto è stato confermato dal recente viaggio di Biden in Asia, che secondo gli Usa sarà il teatro dove si svolgerà la vera partita geopolitica del prossimo decennio.

Il rinsaldamento dell’alleanza con Bruxelles (e le altre capitali europee, tra cui anche Londra) andrebbe dunque letto in un’ottica di crescente “divisione del lavoro”, secondo la quale l’Europa diventerebbe un soggetto più autonomo a livello difensivo e meno dipendente dall’ombrello statunitense. E la Russia, indebolita e fiaccata in ogni ambito da questa guerra, comunque essa vada a finire, non potrebbe dar vita a un asse con la Cina qualora Pechino decidesse di abbandonare l’equidistanza tra l’occidente e Mosca che ha finora mantenuto con atteggiamento realista e prudente.

L’opportunità per l’Europa

In ogni caso, la situazione attuale offre un’opportunità importante all’Europa e anche all’Italia. Il dibattito sul rafforzamento difensivo e strategico, unitamente alla discussione relativa alla riforma della governance, potrebbe rendere l’Ue un soggetto più grande, forte e autorevole a livello internazionale.

Se si riuscisse ad abbandonare la rigida regola dell’unanimità e a dar vita a un’Europa a cerchi concentrici, l’allargamento dello spazio democratico consentirebbe anche di aumentare la capacità attrattiva dell’Ue rispetto a regioni strategiche per il suo vicinato, come i Balcani occidentali e la sponda meridionale del Mediterraneo. Aree di importanza cruciale anche per Roma, che potrebbe dunque avere l’occasione per aumentare la propria influenza, quantomeno a livello regionale, influenzando la politica estera dell’Unione.

La crisi che stiamo vivendo può davvero portare a ridefinire le relazioni internazionali: sta all’occidente, e in primis all’Europa, trasformarla in un’opportunità per poter finalmente contare di più sullo scacchiere mondiale. 

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