La rabbia di Putin per le sanzioni di Trump, Pechino blocca l’acquisto di petrolio russo

Dopo aver varato nuove sanzioni contro le maggiori compagnie petrolifere russe, Donald Trump ha approvato l’invio di nuovi sistemi Patriot all’Ucraina. L’escalation sanzionatoria questa volta ha prodotto l’effetto di trascinare nell’azione anche la Cina, che giovedì 23 ha sospeso gli acquisti via mare di petrolio russo, come ha scritto Reuters. Aggiunge l’agenzia: «Il forte calo della domanda di petrolio da parte dei due maggiori clienti della Russia metterà a dura prova le entrate petrolifere di Mosca e costringerà i principali importatori mondiali a cercare forniture alternative». La decisione arriva mentre le raffinerie in India si preparano a ridurre le importazioni di greggio da Mosca, per conformarsi alle sanzioni americane. Trump, nel mondo degli autocrati la vanità è la variabile chiave L’ira di Vladimir Putin e il suo entourage hanno risposto alle sanzioni con un misto di offesa nazionale e aperta ostilità: «Le nuove sanzioni alla Russia annunciate da Trump sono un atto ostile e non rafforzano le relazioni russo-americane», ha detto il presidente russo, citato dalla Tass, mentre un’altra agenzia statale riportava altre parole: «Nessun paese che abbia rispetto di se stesso fa mai niente sotto pressione». «Un atto di guerra», ha scritto Dmitri Medvedev su Telegram, come se non fosse stata la Russia a iniziare la guerra due anni e mezzo fa, se si considera soltanto l’invasione su larga scala. Il presidente ha anche affrontato la minaccia dei missili a lungo raggio minacciando a sua volta Kiev: «Se l’Ucraina colpisce la Russia con armi a lunga gittata, la risposta sarà seria e sconvolgente». Sarà un caso, ma nelle stesse ore la Lituania ha denunciato la violazione del proprio spazio aereo da parte di jet russi, annunciando la convocazione dei diplomatici di Mosca. Le vie per la vittoria di Putin si stanno chiudendo tutte Pressioni sul Cremlino La doppia iniziativa di Trump potrebbe apparire come una svolta, se solo non fosse l’ennesima giravolta di un presidente che vive di ambivalenze, decisioni umorali, contraddizioni e rettifiche. Ma in questo caso la Casa Bianca ha deciso di applicare la pressione tante volte annunciata e altrettante disattesa, smentendo le premesse ricavate dall’ultimo contatto fra i leader, dove Putin sembrava avere ottenuto che Washington non concedesse missili a lungo raggio a Kiev. L’incontro previsto con il leader russo a Budapest è saltato, ma Trump ha continuato a dire che vuole comunque incontrarlo «in futuro». Il presidente continua a muoversi in quella zona grigia che da anni definisce il suo rapporto con Mosca: una combinazione di deterrenza e fascinazione, di durezza tattica e simpatia di fondo per il modello di potere incarnato dal Cremlino. La decisione sui Patriot, dapprima smentita da Trump e poi confermata dal capo dell’ufficio presidenziale ucraino Andriy Yermak, risponde a una logica di responsabilità internazionale. Ma allo stesso tempo consente a Trump di mostrarsi come arbitro più che come alleato. È lui, non la Nato, a concedere le armi; ed è sempre lui a dettare le condizioni del sostegno. Anche per il Cremlino, il linguaggio dell’ambiguità serve a guadagnare spazio: l’aggressore che si proclama aggredito, il presidente che parla di “pace” mentre intensifica i bombardamenti. In questo gioco di specchi, Trump e Putin finiscono per assomigliarsi. Per Putin, Trump è il partner ideale e il rivale perfetto: un leader che non crede nella diplomazia multilaterale, ma che vuole essere riconosciuto come il solo interlocutore possibile. Per Trump, Putin è il doppio che serve a legittimare la propria immagine di forza: l’uomo d’ordine in un mondo di burocrati e intellettuali. Così ogni tensione fra i due diventa un dramma utile, una messinscena geopolitica che alimenta la loro autorità interna. L’ennesima pantomima del duo tragico Putin-Trump Il terzo attore In questa partita entra ora la Cina, che Trump indica come la chiave del negoziato. «Xi Jinping può avere una grande influenza su Putin», ha detto il presidente, che potrebbe incontrare Xi in Corea del Sud. Il vertice è stato discusso e poi messo in dubbio, e si vedrà se l’allineamento petrolifero ai danni di Mosca agevolerà il summit. Xi, «un uomo rispettato, un leader molto forte», rappresenta per Trump un interlocutore capace di mettere pressione su Putin. Ma dietro il linguaggio diplomatico si intravede l’intento più profondo: delegare a Pechino almeno in parte il ruolo di garante della stabilità, scaricando su altri una fetta di responsabilità dell’ordine mondiale. L’idea che la Cina possa convincere la Russia a ridurre la pressione militare in Ucraina rivela tanto l’astuzia quanto la fragilità della posizione americana. Trump, che in campagna elettorale ha accusato la Cina di manipolare i mercati e minacciare la sicurezza degli Stati Uniti, oggi è costretto a guardare a Xi come a un mediatore indispensabile. È una mossa che confonde gli alleati e affascina gli avversari: l’America si mostra allo stesso tempo aggressiva e disposta al compromesso, sovrana e dipendente. La nuova stagione della politica estera trumpiana si muove così lungo la linea sottile fra il gesto e la sostanza. I Patriot che arrivano a Kiev, le sanzioni che colpiscono Rosneft e Lukoil, le parole di elogio per Xi e i rinvii dell’incontro con Putin: tutto partecipa di una stessa grammatica dell’ambiguità. È il linguaggio con cui Trump governa il caos internazionale, moltiplicando i segnali contraddittori fino a renderli indistinguibili dalla strategia. Alla fine, resta un paradosso difficile da sciogliere: Trump appare allo stesso tempo più duro e più conciliante con la Russia di qualsiasi suo predecessore. Come Putin, comunica forza attraverso la confusione. E come Putin, ha bisogno che il mondo non capisca fino in fondo che cosa intende fare, forse perché in quell’incomprensione si nasconde la sua forma più efficace di potere. Putin, la debolezza del fronte ucraino e l’istinto del bluff