Lievito, zucchero, sale, olio, ma soprattutto farina di grano tenero. Il khubz, pane arabo conosciuto anche come pane libanese, pita o pane siriano, è uno degli alimenti base della dieta delle popolazioni di tutta la zona del medio oriente e nord Africa. La particolarità è che il grano tenero, primo ingrediente di questo pane, è quasi sempre d’importazione: fatto che oggi non è di secondaria importanza, visto che i principali fornitori della regione sono Russia e Ucraina.

Se nell’occidente ricco e industrializzato i riverberi della guerra sulle forniture alimentari rappresentano un fastidio superabile per i consumatori, per l’altra sponda del Mediterraneo non si tratta soltanto di un altro elemento che contribuisce all’inflazione generale. Kiev e Mosca coprono il 30 per cento dell’export globale di grano tenero e hanno forti partner in paesi come Libano, Egitto, Tunisia, Yemen ed Etiopia, i quali prendono dai paesi in guerra dal 40 al 95 per cento delle loro importazioni. Nell’Africa subsahariana, Somalia e Benin fanno affidamento su Russia e Ucraina per tutto il loro grano importato.

In questi due mesi di guerra ai confini orientali dell’Europa, a Tunisi i forni hanno chiuso per giorni a causa della mancanza di materia prima e dell’aumento dei prezzi. Se la situazione non rientra, la tensione sociale potrebbe trasformarsi in una catastrofe.

Il cibo è infatti una parte importante dei budget dei cittadini in medio oriente, perché tante persone vivono in povertà. Non per niente, restando in Tunisia, grandi rivolte per il pane si sono registrate in tempi piuttosto recenti, nel 1983. Centinaia di migliaia di persone si presero le piazze di tutto il paese, in una rivolta sedata nel sangue ma che ha portato a un indebolimento del regime trentennale di Habib Bourguiba. E anche il seguente, Zine El Abidine Ben Ali, dopo averlo spodestato con un colpo di stato nel 1987, è stato deposto durante la Primavera araba del 2011, nella serie di rivolte in parte alimentate, ancora una volta, proprio dal picco del prezzo del pane.

L’“insonnia” dei terreni

Se nel tormentato continente africano il blocco degli scambi commerciali rischia di degenerare e di portare a una profonda crisi alimentare, in Europa non è così. Eppure, proprio agitando lo spettro degli scaffali vuoti (che vuoti non sono mai stati), in Europa si è pensato bene di sospendere le prescrizioni ecologiche per l’agricoltura, con l’obiettivo di aumentare la produzione interna.

La Commissione europea, spinta dai governi e dalla campagna di terrore su un’imminente carestia impostata dalle lobby agricole e dell’industria alimentare, ha esentato gli agricoltori dal vincolo di tenere a riposo il 4 per cento dei terreni. La politica agricola comune (Pac) garantisce infatti sussidi ai produttori che decidono di lasciare queste nicchie incolte a beneficio di uccelli e insetti impollinatori, le cui popolazioni stanno collassando in tutta la regione a causa dell’uso di pesticidi e insetticidi. Le nuove disposizioni mantengono il sussidio anche se quei terreni – le cosiddette aree ecologiche – verranno spianati per piantarci mangimi per gli allevamenti intensivi, naturalmente irrorandoli con pesticidi.

Il tutto quando la verità è che il vecchio continente non rischia alcuna crisi alimentare. A dirlo è la stessa Commissione europea che, in un documento pubblicato a inizio aprile, scrive chiaramente che: «L’Europa è ampiamente autosufficiente per i prodotti alimentari».

Lo ha ribadito anche il ministro delle Politiche agricole, Stefano Patuanelli, in una informativa urgente sulla situazione in Ucraina nell’aula della Camera lo scorso 29 marzo.

In ogni caso, anche se l’interruzione delle importazioni mettesse a rischio il sistema alimentare europeo, non mancherebbe lo spazio per produrre tutto il necessario sul continente. Tutto dipende dall’utilizzo che si fa dei suoli, e in Europa più del 70 per cento dei terreni agricoli è destinato a colture per mangimi.

Anche in Italia 6 ettari su 10 coltivati a seminativi servono ad alimentare gli animali. Ma per gli allevatori non basta, perché chiedono ancora più mais. La metà di quello importato in Ue proviene dall’Ucraina e 8 chicchi su 10 finiscono nei mangimi proteici degli animali chiusi nei capannoni industriali.

Il modello produttivo

Per le numerose organizzazioni della società civile, tra cui l’associazione Terra!, impegnate nella promozione di una transizione ecologica dell’agricoltura, sarebbe più saggio non bloccare un percorso già troppo lento e in forte ritardo. Al contrario, stiamo assistendo a una speculazione che usa la paura della guerra per fermare le misure ecologiche della produzione alimentare.

L’aumento dei prezzi del cibo, che è reale ma che in molti casi ha le sue radici in eventi precedenti la guerra in Ucraina, dovrebbe rappresentare uno sprone per cambiare il modello produttivo, riducendo la dipendenza di materie prime dall’estero, decarbonizzando il settore agricolo e diversificando le produzioni, con una sostanziale riduzione della produzione zootecnica e del consumo di carne e derivati. Trasformare l’agricoltura in senso ecologico, è la proposta, permetterebbe di servire meglio il mercato locale, di aumentare la sicurezza alimentare e di ridurre gli input esterni, dai quali dipende gran parte dell’inflazione in corso.

I dati sono lì a dimostrarlo: secondo i Consorzi agrari d’Italia, infatti, nell’ultimo anno il prezzo dei fertilizzanti è schizzato del 2-300 per cento passando in alcuni casi da 350 a oltre 1.000 euro a tonnellata. Disponibilità e costi sono legati direttamente al prezzo del gas, materia prima fondamentale per il processo produttivo e per il trasporto di fertilizzanti chimici. Sul picco dei prezzi del gas se ne sono scritte molte: di certo l’aumento della domanda a seguito della riduzione delle restrizioni dopo il 2020 ha innescato una crescita dei prezzi, fattore al quale si aggiungono il tentativo delle compagnie fossili di recuperare i margini perduti con il crollo dei consumi durante il lockdown e la preoccupazione per l’impatto delle future politiche climatiche.

Sembra piuttosto chiaro che più l’azienda agricola si scollega dalle risorse e dai mercati presenti sul territorio di riferimento, più aumenta la sua esposizione agli shock ormai tipici di un mercato globale sempre più insicuro e inaffidabile. Un mercato che, per le cosiddette commodities, cioè per prodotti standardizzati come petrolio, gas, ma anche soia, mais o grano, è dominato da pochi grandi giocatori e fortemente finanziarizzato.

Proprio nella speculazione finanziaria va ricercata un’altra delle cause delle nostre espressioni stupite quando leggiamo lo scontrino all’uscita dal supermercato. La possibilità di scommettere sui prezzi delle materie prime non esiste da oggi, ma è in corrispondenza delle crisi che aumentano i fenomeni di compravendita in borsa di contratti legati a varie forniture, tra cui quelle di grano e mais. Più questa compravendita è fitta, più i prezzi salgono, impattando sull’economia reale.

Crisi climatica

E poi c’è il cambiamento climatico, che si esprime in questa fase nella drammatica e lunghissima siccità che ha colpito non solo il nostro paese, ma anche altre zone del mondo. Anche il freddo e umido Canada si trova alle prese con una carenza di precipitazioni tale da aver più che dimezzato la sua produzione di grano duro, un quinto della quale finisce nella nostra pasta.

Tutto questo intrico di fenomeni sta mettendo in ginocchio il sistema alimentare in tutto il pianeta. Nel continente africano questo si traduce direttamente in potenziali carestie e tensioni sociali, mentre nell’occidente industrializzato il processo è più in divenire. Ma i segnali ci sono tutti e suggeriscono correttivi che possano andare in una direzione precisa: riavvicinare produzioni e consumi, aumentare la biodiversità e ridurre la dipendenza da input esterni in agricoltura, per proteggere ciò che di più caro abbiamo, il cibo, dall’impatto combinato di finanza speculativa, crisi climatica e tensioni geopolitiche.

La soluzione è ben più complessa del semplice aumento delle superfici coltivate a mangimi sui nostri territori: tutta l’architettura della politica agricola dev’essere ripensata, a partire dalla distribuzione dei fondi, che devono andare maggiormente alle piccole aziende. Non si tratta di autarchia – ci sarà sempre qualcuno che venderà il grano tenero per il khubz ai forni tunisini – ma di superare la sbornia della globalizzazione di tutto e imboccare la rotta della conversione ecologica.

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