«Ogni membro di Hamas è un uomo morto»; «C’è un tempo per la pace e un tempo per la guerra. Ora è tempo di guerra. Israele è pronto a combattere. Non abbiamo voluto noi questa guerra ma la porteremo a termine fino alla vittoria». Sono solo alcune delle frasi pronunciate dal premier israeliano Benjamin Netanyahu nelle settimane successive all’attacco terroristico di Hamas dello scorso 7 ottobre.

La reazione a quei tragici e sanguinari eventi ha portato a una rappresaglia di Israele che ha causato oltre novemila vittime secondo i dati del ministero della Salute di Gaza controllato da Hamas. Sono state rase al suolo decine di migliaia di abitazioni e interi quartieri sono da ricostruire. Al momento i vertici militari e del governo di Israele hanno annunciato che l’obiettivo dell’operazione militare è quella di annientare il gruppo terroristico, proprio per questo sono entrati nella Striscia con soldati e carri armati. Ma cosa significa esattamente? E come può Israele raggiungere il suo obiettivo?

L’organizzazione

Non essendo un esercito regolare non è facile stimare la potenza militare di Hamas. Da report e analisi di diversi think tank l’ala militare di Hamas è divisa in corpi (marina, aviazione, cybersicurezza etc.) e reparti. Secondo le forze armate israeliane sono circa 30mila i combattenti di Hamas, organizzati in gruppi e battaglioni. Una fonte citata dalla Reuters riferisce che il numero è più vicino alle 40mila unità.

La brigata più nota e numerosa è quella di Izz al-Din al-Qassam, creata nel 1991 e che negli anni ha maturato importanti capacità di addestramento militare. C’è poi il reparto speciale di al Nukhba, guidato da Bilal al-Kedra (ucciso in un raid aereo di queste settimane), e che secondo gli israeliani ha condotto l’attacco nei kibbutz dello scorso 7 ottobre. Non si è a conoscenza del numero effettivo dell’unità di elite, ma secondo l’Idf i suoi membri sono scelti direttamente dai vertici militari. Ai 30-40mila miliziani di Hamas si sommano i membri della Jihad islamica palestinese, l’altro gruppo armato che combatte contro Israele. Secondo il Dipartimento di stato americano, la Jihad islamica conta solo mille miliziani, un numero molto più basso rispetto agli ottomila dichiarati dall’organizzazione nel 2011.

Nelle ultime settimane le forze di difesa israeliane (Idf) hanno annunciato l’uccisione di decine di vertici militari tra leader e comandanti. Stando alle comunicazioni ufficiali sono morti i vertici del commando navale, esponenti di spicco del commando aereo che ha organizzato l’attacco al rave del 7 ottobre, e anche membri dell’elite al Nukhba. Gran parte di loro sono stati neutralizzati nel sud della Striscia a Khan Younis, nella parte più lontana dal confine nordico e più vicina all’Egitto.

Chi ruota intorno ad Hamas

Ai 30-40 mila miliziani si sommano anche migliaia di persone che sostengono in maniera indiretta Hamas. Da quando governa Gaza dopo le elezioni del 2006, l’organizzazione è stata per i gazawi anche fonte di reddito. Attraverso la gestione degli aiuti umanitari tramite fondazioni vicine, la costruzione di cliniche che forniscono servizi e cure a costi più bassi, l’assunzione di personale per la gestione delle istituzioni pubbliche e la garanzia di un sostegno economico ai famigliari dei palestinesi uccisi dai coloni o finiti in carcere, Hamas ha creato un vasto consenso sociale.

Ma ciò non per forza significa che quella fetta di popolazione sia parte integrante di Hamas, semplicemente forniscono consenso per via di un sistema messo in piedi negli ultimi dieci anni che ricorda logiche clientelari e paramafiose. E quindi, annientare Hamas significa anche fare tabula rasa di migliaia di palestinesi che non possono essere equiparabili a miliziani addestrati e con anni di combattimento alle loro spalle? A queste domande il governo israeliano non ha ancora risposto. Significherebbe causare crimini di guerra, violazioni del diritto internazionale e dare vita a un danno umanitario senza precedente che rischia di ritorcersi contro Israele negli anni a venire.

Obiettivi poco chiari

La supremazia militare di Israele è evidente sotto tutti i punti di vista: dal suo arsenale di guerra al numero di soldati pronti a imbracciare i fucili (sono 170mila ai quali si sommano i 300mila riservisti chiamati da Tel Aviv).

Il vantaggio militare però non basta. Non sempre nella storia hanno vinto gli eserciti più forti, sono numerose le variabili che spostano gli equilibri all’interno di un conflitto prima fra tutte il contesto e Gaza, da questo punto di vista, è una trappola per Israele. L’alta densità abitativa e concentrazione di edifici in pochi metri nasconde incognite in ogni angolo di strada, senza contare  dei tunnel sotterranei.

Cosa ha quindi intenzione di fare Israele? Distruggere tutte le postazioni militari da dove partono i missili e colpire i depositi di armi e munizioni di Hamas? Riportare a casa il maggior numero di ostaggi possibili tramite un’operazione via terra più mirata? Colpire, tramite i servizi segreti, i vertici politici dell’organizzazione che godono di protezione all’estero?

Prima o poi il premier israeliano Netanyahu dovrà capire cosa fare e dovrà annunciarlo non soltanto ai suoi cittadini ma anche ai partner internazionali con i quali è in stretto contatto da settimane. Al momento l’obiettivo è molto vago, forse perché anche l’Idf non ha ancora chiara quale sia la strategia per annientare Hamas. Ma al piano militare si affianca quello della diplomazia di lungo periodo. Un’eventuale sconfitta di Hamas non metterà i sigilli alla causa palestinese, serve un piano da attuare dopo l’operazione militare. Al momento diverse opzioni sono sul tavolo, ma nessuna sembra spiccare sull’altra.

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